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LAVORO Magda Malinowska, delegata sindacale di Inicjatywa Pracownicza, primo sindacato nei magazzini polacchi di Amazon, licenziata il 9 novembre per il ruolo svolto in occasione di un incidente mortale avvenuto due mesi prima nell’hub di Poznań, ci parla dell’episodio, delle condizioni in cui operano i lavoratori Amazon nel suo paese, della campagna internazionale Make Amazon Pay e della necessità di unire i lavoratori del colosso americano in tutto il mondo per far pesare la loro forza. LIBRI Sta per uscire il primo libro edito da PuntoCritico, “Il significato della Seconda guerra mondiale” di Ernest Mandel. Nella newsletter la prima parte dell’Introduzione al volume, scritta da P. Acquilino.


Licenziata da Amazon. Intervista a Magda Malinowska

“Amazon pensa in modo globale. Perciò anche i lavoratori, se vogliono migliorare le proprie condizioni di lavoro, devono fare altrettanto”. È la conclusione dell’intervista che ci ha rilasciato Magda Malinowska, esponente di Inicjatywa Pracownicza [iniziativa dei lavoratori], prima organizzazione sindacale nei magazzini polacchi di Amazon e delegata nel centro di distribuzione POZ1 nei pressi di Poznań, nella parte occidentale del paese, 170 chilometri dal confine tedesco e 270 da Berlino. Magda il 9 novembre ha ricevuto una lettera di licenziamento. Amazon le contesta il comportamento tenuto in occasione di una morte sul lavoro avvenuta a settembre. Quando abbiamo ricevuto la notizia ci siamo messi in contatto chiedendole di raccontarci l’episodio e di inscriverlo nel quadro più generale del lavoro nei magazzini polacchi e dei tentativi dei lavoratori di organizzarsi sindacalmente al loro interno. Ne è emersa una situazione interessante: Amazon gestisce i propri stabilimenti utilizzando degli algoritmi, ma non manca di flessibilità organizzativa e tende a modellare il proprio comportamento a seconda del contesto che trova nei paesi in cui opera. Per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro, ad esempio, in Italia, soprattutto dopo lo scoppio della pandemia, ha adottato una politica molto rigorosa, trasformando le regole di distanziamento e le altre misure preventive in un mezzo per irrigidire ulteriormente la disciplina interna. Ma non è così ovunque. Negli USA, ad esempio, il tasso di incidenti è multiplo rispetto alla media nazionale. Chris Smalls, il lavoratore del magazzino di Staten Island a New York, licenziato all’inizio della pandemia per aver denunciato la mancata adozione di misure adeguate, di recente ha pubblicato su Twitter alcuni video che mostrano lavoratori portati via in ambulanza dal JFK8, commentando che “queste visite settimanali sono tristemente la norma”. In Polonia, ci racconta Magda Malinowska, Amazon mette consapevolmente a rischio la salute e la stessa vita dei dipendenti, in primo luogo imponendo ritmi di lavoro insostenibili. E sta mettendo in atto una stretta disciplinare sui lavoratori e sui rappresentanti sindacali che denunciano questa situazione. Succede in Bangladesh, in Cambogia, ma i licenziamenti sono fioccati anche a New York, a Poznań e in Germania.

Cerchiamo innanzitutto di chiarire il contesto. Quando è arrivata Amazon in Polonia? Quanti magazzini e quanti dipendenti ha? E quanti sono iscritti al sindacato?

I primi due magazzini sono stati aperti verso la fine del 2014 a Poznań e a Wrocław [Breslavia]. La sindacalizzazione è iniziata poche settimane dopo, perché una parte del personale, ad esempio i team leader, era stata addestrata all’estero, in Gran Bretagna e soprattutto in Germania, e si è resa subito conto delle differenze di trattamento che c’erano in Polonia. I primi conflitti sono scoppiati perché le condizioni di lavoro qui erano peggiori. Ma quei lavoratori oggi non ci sono più. Se ne sono andati. Uno dei problemi principali che incontriamo cercando di organizzare sindacalmente i dipendenti in Amazon è proprio il turnover altissimo. E questo, insieme al fatto che la maggior parte dei dipendenti ha contratti a tempo e che alcuni sono assunti tramite agenzie, rende difficile fare una stima. Noi calcoliamo circa 17.000 dipendenti, di cui oltre metà precari, divisi in 11 magazzini sparsi su tutto il territorio polacco, in città anche molto distanti tra loro e questo dal punto di vista sindacale è un altro problema. Noi abbiamo 1.000 iscritti, prevalentemente tra i dipendenti fissi, il che fa di Inicjatywa Pracownicza la prima organizzazione sindacale in Amazon. Ma riceviamo richieste di intervento anche dai lavoratori delle agenzie, ad esempio, per difenderli dalle sanzioni disciplinari. Però è chiaro che chi non ha un posto di lavoro stabile è intimorito.

Tu lavori a Poznań. Quanti dipendenti ci sono e che ruolo hai sindacalmente?

Il magazzino si trova in un sobborgo della città e i dipendenti sono circa 5.000, ma in periodi come questo, prima delle vacanze di Natale, arrivano fino a 10.000. In Polonia le agibilità sindacali sono legate al numero di iscritti. Cioè se hai più iscritti hai anche più agibilità. Se sei il primo sindacato hai un vero e proprio riconoscimento. Noi lo siamo e quindi abbiamo non tutte ma quasi tutte le agibilità. Io sono delegata sindacale e rappresentante per la sicurezza.

Tu sei stata licenziata il 9 novembre. Perché?

Il mio licenziamento è legato a un incidente avvenuto il 6 settembre. Un collega è morto durante il lavoro. Non entro troppo nei dettagli perché c’è un’indagine in corso. Era un collega che lavorava nel mio reparto e faceva i miei turni. Appena ho saputo dell’incidente ho parlato con gli alti lavoratori per cercare di ricostruire i fatti. Il collega svolgeva un lavoro molto pesante, troppo pesante per una persona sola. Erano in pochi, lui era rimasto senza cambi ed era molto affaticato. Quel lunedì si era sentito male, aveva un dolore al petto e respirava a fatica, lo aveva fatto presente al suo team leader, che invece di farlo stendere e chiamare il medico gli ha detto di andare a farsi vedere dal personale paramedico presente in magazzino. Tieni presente che il magazzino di Poznań è enorme, una superficie pari a 400 campi da calcio. Perciò ha dovuto fare su e giù e attraversare il magazzino e quando alla fine è arrivato dai paramedici è morto.

Voi giudicate Amazon responsabile di questa morte…

Noi facciamo due osservazioni: una è che quel lavoro è troppo pesante, problema che avevamo già segnalato, e l’altra che il team leader non era preparato ad affrontare quella situazione. Quando una persona fatica a respirare e ha dolori al petto la prima cosa da fare è dirgli di non muoversi. Invece di farlo stendere e chiamare un’ambulanza il suo capo lo ha fatto andare in giro per il magazzino. Per questo riteniamo che Amazon sia responsabile.

Cosa c’entra il tuo licenziamento con questo incidente?

Io quel giorno ero in magazzino e ho sono andata in reparto per raccogliere informazioni. Sono nel sindacato da tempo e ho preso parte a molte squadre di indagine sugli incidenti, per cui ho maturato  molta esperienza in materia e perciò ho chiesto ad Amazon di autorizzarmi a far parte della cosiddetta squadra postincidenti. Si tratta di una commissione che si forma ogniqualvolta c’è un incidente in azienda. Il suo compito è fare un’indagine e redigere un verbale in cui stabilisce se l’episodio va considerato o meno un incidente sul lavoro. La commissione comprende sia rappresentanti dell’azienda che del sindacato. Io in quel caso ho chiesto di esserne parte, ma Amazon ha rifiutato. Così sono andata a telefonare al nostro avvocato e mentre telefonavo ho visto che stavano chiudendo il magazzino con dentro i colleghi. Hanno chiuso anche cancelli esterni e davanti hanno schierato degli addetti alla sicurezza, in modo che le auto non potessero entrare nel parcheggio. Non so, francamente, per quale ragione. Forse temevano l’arrivo dei giornalisti. Un gruppo di guardie è venuto verso di me e mi ha accerchiata, per cui mi sono allontanata in direzione della mia auto, perché c’era il rischio di uno scontro fisico. Sono entrata nell’auto. In quegli istanti stavano portando il corpo del collega morto fuori dal magazzino per caricarlo su un furgone aziendale. E non volevano che nessuno lo vedesse. Io sono tornata a casa e due mesi dopo ho ricevuto la lettera di licenziamento, con l’accusa assurda di avere scattato delle foto o un video del cadavere. Cosa che non avrei potuto fare materialmente perché ero in auto e non potevo vederlo.

Voi contestate una violazione della legge polacca.

In realtà hanno violato ben tre leggi. La prima volta perché la legge prevede che le contestazioni disciplinari siano comunicate entro un mese. Perciò loro potevano licenziarmi, ma non con un licenziamento disciplinare. La seconda violazione è che mi hanno licenziato nonostante io sia una delegata sindacale e il mio sindacato non fosse d’accordo, perché anche questo è vietato dalla legge. Infine io sono anche rappresentante per la sicurezza. Perciò ci sono tre violazioni della legge, oltre al fatto che l’accusa a mio carico è priva di fondamento.

Come sindacato che iniziative avete adottato?

Pochi giorni fa c’è stata una manifestazione organizzata dal sindacato, ma che ha visto anche la collaborazione di Greenpeace, del sindacato dell’agricoltura e di rappresentanti di altri posti di lavoro iscritti al nostro sindacato. Abbiamo fatto un blocco stradale davanti a un grande centro commerciale per mostrare che anche se Amazon è un colosso dell’e-commerce noi non siamo disposti a cedere. In Polonia gli imprenditori stanno diventando sempre più aggressivi nei confronti dei lavoratori e questo colpisce anche il rapporto tra la distribuzione e il settore agricolo.  Questo spiega l’adesione di Agrounion, che è un sindacato molto grande, alla nostra iniziativa. Altri gruppi hanno organizzato volantinaggi di solidarietà nei miei confronti in diverse città polacche e domani alcuni lavoratori distribuiranno volantini di fronte ai magazzini Amazon. Ma la solidarietà ha travalicato in confini polacchi. Ci sono state iniziative di sostegno in Germania e mi sono arrivate alcune foto con cartelli di solidarietà anche dall’ADL Cobas in Italia. Anche la stampa polacca ha dato parecchio risalto al mio caso. Insomma ho ricevuto una solidarietà persino più ampia di quanto mi aspettassi.

Che significato attribuisci al tuo licenziamento?

Diciamo quest’atto è arrivato dopo che si erano verificati altri episodi. Circa due settimane prima del licenziamento in un’intervista a un giornalista polacco avevo parlato dell’incidente spiegando perché riteniamo Amazon responsabile. Ma c’è anche un altro aspetto. Di recente ho avuto un scontro con l’azienda perché la nostra organizzazione ritiene che i delegati sindacali abbiano diritto di esercitare un controllo sulle condizioni di lavoro. Loro non vogliono, ci impediscono di portare i cellulari in magazzino. Io posso vedere che l’azienda viola le regole, come è successo, ad esempio, durante la pandemia, ma loro non mi permettono di fare foto. Per noi il posto di lavoro non è un luogo privato, che appartiene a quei pochi che siedono in consiglio d’amministrazione. Ci lavorano migliaia di persone che trascorrono in magazzino oltre 11 ore al giorno, perciò noi lo consideriamo uno spazio pubblico, su cui va esercitata una forma di controllo sociale. È evidente che loro invece hanno intenzione di intimorire il sindacato e chiuderci la bocca.

Quali sono le prospettive?

La situazione è abbastanza paradossale, perché io di sicuro vincerò la causa, ma ci vorranno 2, 3, forse 5 anni e in questo lasso di tempo io non sarò più in magazzino. Per i datori di lavoro questa situazione è molto vantaggiosa, perché anche se infrangono la legge e alla fine perdono la causa in tribunale, portano comunque a casa un risultato, perché nel frattempo possono smantellare il sindacato nelle proprie aziende.

Secondo te Amazon teme una crescita del sindacato nei magazzini polacchi?

Da una parte c’è questo aspetto, ma per Amazon il problema sono soprattutto le nostre denunce circa le condizioni di lavoro nei magazzini. Grazie a noi sono intervenuti gli ispettori del lavoro. Gli ispettori vengono nei magazzini e controllano quante calorie bruciano i lavoratori durante il turno, perché la legge stabilisce una soglia che non può essere superata. Le ispezioni hanno accertato che alcuni dipendenti Amazon bruciano il triplo delle calorie consentite. È come se in un turno facessi tre giornate di lavoro, alla fine non riesci a recuperare le forze, cioè a riprodurre la tua forza-lavoro. Gli ispettori che accertano queste condizioni potrebbero addirittura chiudere il magazzino o alcuni reparti. Invece di solito li spostano da un reparto all’altro. Ma la risposta di Amazon, invece di cambiare le condizioni di lavoro, è fare ricorso contro i provvedimenti degli ispettori. Questo atteggiamento conferma che i manager mettono a rischio la nostra salute e la nostra vita e lo fanno consapevolmente. Per questo devono essere considerati responsabili se qualcuno si ammala o muore.

La politica che atteggiamento ha nei vostri confronti?

Domani abbiamo un incontro in Parlamento coi rappresentanti di Lewica Razem [Sinistra Insieme], un partito di sinistra che si ispira a Podemos, ma non ha lo stesso peso di Podemos in Spagna. Parleremo della nostra situazione. Uno dei nostri obiettivi è cambiare la legge sulla rappresentanza sindacale, perché qui i sindacati, a parte alcuni settori con una tradizione consolidata come i minatori, sono molto deboli. D’altra parte però anche la sinistra è molto debole nel Parlamento polacco. Perciò siamo consapevoli che senza una pressione dei lavoratori sul Parlamento non avremo risultati, ma almeno è positivo che possiamo parlare pubblicamente con dei politici sui possibili cambiamenti.

Tu fai parte anche di Make Amazon Pay. Di cosa si tratta?

La campagna Make Amazon Pay è un raggruppamento di organizzazioni che sostengono i lavoratori Amazon e dell’e-commerce, ci sono anche parlamentari e attivisti che pubblicano informazioni e organizzano azioni durante il Black Friday per dare risonanza alle nostre rivendicazioni. Anche le condizioni di lavoro sono parte del problema. Amazon contribuisce a devastare il territorio, spreca le risorse del pianeta e non paga tasse.

A proposito. In molti paesi europei, Gran Bretagna, Francia, Germania, anche in Italia, i media hanno raccontato che Amazon distrugge migliaia di articoli nuovi. Succede anche in Polonia?

Sì ed è un aspetto che conferma l’assurdità di questo tipo di organizzazione. Molti nostri prodotti arrivano dal Bangladesh o dalla Cina, passano attraverso i centri di smistamento europei e quando arrivano nei nostri magazzini in Polonia li spediamo in Germania. Poi però, se il cliente non è soddisfatto, vengono rispediti in Polonia e distrutti. Ultimamente poi Amazon sta aprendo un numero crescente di piccoli magazzini, per cui i driver attraversano tutta l’Europa per smistare i pacchi all’interno di questa rete sempre più ampia di nodi sempre più piccoli. Per l’azienda è economicamente vantaggioso, ma per l’ambiente è distruttivo.

Credo sia abbastanza chiaro che migliorare le condizioni di lavoro e risolvere i problemi che hai elencato è un’impresa che richiede un coordinamento internazionale, almeno a livello europeo. Vuoi dire qualcosa ai lavoratori italiani di Amazon?

Prima di tutto voglio sottolineare che Amazon manovra i suoi pacchi in tutta Europa. Ci sono state occasioni in cui hanno spostato i flussi dalla Germania alla Polonia per aggirare gli scioperi organizzati nei magazzini tedeschi. E ora, come dicevo, stanno chiudendo i grandi magazzini per aprirne di più piccoli. Per questa ragione se come lavoratori non lottiamo tutti insieme non siamo abbastanza forti. Loro pensano globalmente ed espandono la propria rete in continuazione aprendo nuovi magazzini. Perciò nessun magazzino da solo è abbastanza forte. Due volte l’anno organizziamo incontri a cui partecipano lavoratori di Amazon in quanto tali, non come iscritti a un’organizzazione sindacale. Siamo presenti in tutta Europa, ma anche negli USA e abbiamo una piccola presenza anche in Italia. Siamo tantissimi, mentre a dirigere Amazon è un pugno di persone. Perciò, se uniamo le forze, possiamo dettare le nostre condizioni. Dobbiamo sempre tenere a mente che per loro siamo essenziali. E invece di farci trattare come lavoratori usa e getta dobbiamo agire facendo pesare questa essenzialità. Nell’ultimo anno e mezzo, inoltre, la pandemia ha mostrato che la logistica è decisiva e anche questo è un aspetto su cui far leva.


PuntoCritico in libreria, un saggio di Mandel sulla guerra

Entro breve uscirà il primo volume edito da PuntoCritico. Dopo un anno e mezzo di lavoro stiamo per realizzare uno degli obiettivi che ci eravamo dati all’inizio di questa avventura, cioè quello di diventare una pur piccola casa editrice. Usciamo con la traduzione (di Antongiulio Mannoni) di un testo di Ernest Mandel, militante e intellettuale marxista, mai tradotto in italiano, scritto nel 1986, al termine della Guerra Fredda e che sembra riacquistare un sapore di attualità proprio oggi, quando le illusioni suscitate dal collasso dell’URSS – un’era di pace e benessere diffuso – sembrano essersi ormai dissolte nell’urto con la crisi globale iniziata nel 2007 e le tensioni tra USA e Cina sviluppatesi dopo l’entrata di Pechino nel WTO sembrano accentuate dall’influenza della pandemia. Lo spiega bene Piero Acquilino nell’Introduzione, di cui pubblichiamo qui la prima parte.

Per sostenere finanziariamente l’iniziativa abbiamo lanciato una campagna di raccolta fondi sulla piattaforma di crowdfunding Produzioni dal Basso, a cui vi invitiamo a partecipare (qui il link, che vi chiediamo anche di condividere sui vostri social: https://www.produzionidalbasso.com/project/il-significato-della-seconda-guerra-mondiale-di-ernest-mandel/). Tutti i sottoscrittori riceveranno una copia del libro, ma chi volesse esclusivamente ordinare una o più copie può semplicemente scrivere ad assopuntocritico@gmail.com oppure inviare un messaggio whatsapp al 3337914004. Il significato della Seconda guerra mondiale è incluso nel catalogo dei libri in commercio e quindi è ordinabile in tutte le librerie italiane, ma stiamo organizzando una rete di distribuzione, così da renderlo facilmente disponibile tramite distribuzione diretta a Roma e a Genova e tramite libreria in queste due e anche in altre città italiane.

Ernest Mandel, Il significato della Seconda guerra mondiale, Roma, PuntoCritico, 2021 (uscita: dicembre), 316 pp., in 16°, prima edizione italiana, 15 euro (ISBN: 979-12-200-9948-6). Introduzione di Pietro Acquilino. Traduzione di Antongiulio Mannoni. In appendice Premesse Materiali, sociali e ideologiche del genocidio nazista (1988), di E. Mandel.

dall’Introduzione

Se raccolti tutti insieme, i libri dedicati alla Seconda guerra mondiale occuperebbero centinaia di metri sugli scaffali di una biblioteca. Perché dunque aggiungerne un altro? Inoltre è la traduzione italiana di un testo pubblicato in inglese nell’oramai lontano 1986, in un mondo profondamente diverso dall’attuale e che, per forza di cose, non tiene conto della letteratura sull’argomento apparsa negli ultimi trent’anni. Il motivo è che si tratta di una argomentazione condotta con criteri particolari da un autore fuori dal comune.

Oggi in Italia, il nome di Ernest Mandel è conosciuto solo da alcuni partecipanti alle lotte operaie e studentesche della fine anni ‘60, inizio anni ‘70 del Novecento, quando i suoi testi d’introduzione al marxismo (Trattato marxista di economia, La formazione del pensiero economico di Karl Marx, Che cos’è la teoria marxista dell’economia), di analisi della congiuntura economica (Neocapitalismo e crisi del dollaro) o dei paesi del blocco sovietico (La burocrazia, L’URSS è uno stato capitalista?) ebbero una buona diffusione anche fuori dell’ambito ristretto dei militanti di sinistra. Maggiore è stata la sua notorietà in campo internazionale, alimentata anche da importanti contributi d’analisi del capitalismo contemporaneo, tra i quali lo sviluppo della teoria delle “onde lunghe” di Kondratiev e un trattato sulla “terza età” del capitalismo stesso.

Mandel non è stato però solo uno stimato economista di scuola marxista, ma soprattutto, un militante rivoluzionario. Nato nel 1923 a Francoforte sul Meno in Germania, con il nome di Ezra Mandel, da genitori ebrei polacchi, militanti nella Lega di Spartaco di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, cresce ad Anversa in Belgio e, a quindici anni, nel 1938, aderisce al Parti Socialiste Révolutionnaire, sezione belga della IV Internazionale, entrando a far parte quattro anni dopo del Comitato Centrale. Con l’occupazione nazista del paese, partecipa alla Resistenza e, nel gennaio 1943, è arrestato una prima volta, ma riesce a fuggire. Collaboratore del giornale clandestino diretto ai soldati tedeschi Das Freie Wort (La parola libera), è nuovamente arrestato nel marzo dell’anno successivo e deportato in Germania. In un’intervista di molti anni dopo, rivelatrice dell’ottimismo che lo caratterizzerà per tutta la vita, dichiarava: «Ero contento di essere deportato in Germania, perché sarei stato al centro della rivoluzione tedesca!» Evade ancora, ma è ripreso anche questa volta e dovrà attendere la fine del conflitto nel campo di concentramento di Mittelbau-Dora per riacquistare la libertà, senza peraltro vedere realizzate le sue speranze in una rivoluzione europea. Rientrato in Belgio riprende l’attività politica e, come dirigente della IV Internazionale, partecipa all’inizio degli anni ‘50 al durissimo dibattito interno che porterà alla scissione del 1953, prima opponendosi e poi adattandosi alle posizioni di Michel Raptis “Pablo” che, di fronte allo scontro tra il blocco sovietico e quello occidentale, prospettava una strategia basata su un entrismo di lunga durata nei partiti staliniani. Conseguentemente alle posizioni sostenute, aderisce al Partito Socialista Belga, collaborando nel frattempo con la stampa trotskista sotto lo pseudonimo di E. Germain e contribuendo nel 1956 alla fondazione del settimanale La Gauche (La Sinistra). Nel 1963 partecipa alla parziale riunificazione, che darà origine al Segretariato Unificato della IV Internazionale, del quale rimarrà uno dei principali dirigenti e, in tale veste, oltre che nell’elaborazione teorica, s’impegna nella solidarietà attiva con le lotte dei lavoratori e con quelle di liberazione nazionale di tutto il mondo sino alla sua morte, avvenuta a Bruxelles il 20 luglio 1995.

Non è questa la sede per affrontare l’analisi delle concezioni e dell’azione politica di Mandel, che hanno suscitato consensi, ma anche discussioni e polemiche, all’interno del variegato mondo che si richiama alla IV Internazionale. Queste note biografiche hanno solo lo scopo di chiarire al lettore il punto di osservazione dal quale Mandel ha esaminato la seconda guerra mondiale: quello di un marxista, militante rivoluzionario e comunista antistalinista, oltre che di un combattente, nonostante la giovane età, della Resistenza antinazista. Il suo, quindi, è un punto di vista diverso da quelli comuni nell’epoca attuale, in cui, scomparsa la generazione dei protagonisti e mutato il contesto storico, i mezzi di comunicazione e spesso anche la scuola, presentano gli avvenimenti del 1939-45 come una titanica lotta della democrazia contro la barbarie e il totalitarismo nazifascisti. Un quadro in bianco e nero, tanto semplice e rassicurante quanto reticente e, in fin dei conti, falso. La storia diventa così uno strumento propagandistico per accreditare il sistema economico-sociale-politico occidentale, non solo come “il migliore dei mondi possibili”, ma soprattutto come “l’unico mondo possibile”, a cui gli abitanti del pianeta vogliono, e se non vogliono, devono, partecipare. In questo quadro la guerra, da “continuazione della politica con altri mezzi” è degradata a operazione di polizia contro “Stati canaglia”, versioni ridotte del mostro nazista.

Anche le trattazioni che più si allontanano da questa visione del conflitto sono spesso centrate sull’analisi degli avvenimenti politici e militari, lasciando in secondo piano le radici economiche e sociali di uno scontro che ha attraversato tutta la prima metà del Novecento, coinvolgendo il mondo in una seconda “guerra dei trent’anni”: dalla guerra italo-turca del 1912, fino alla capitolazione del Giappone il 15 agosto 1945. Oppure, concependo essenzialmente la Seconda guerra mondiale come uno scontro tra sistemi politico-sociali inconciliabili, contribuiscono a questa sottovalutazione, allontanando sullo sfondo, se non eliminando completamente, la complessa rete di conflitti e di interessi comuni che legò i partecipanti di entrambi gli schieramenti.

Porre il problema della guerra oggi non è un mero esercizio storiografico. La caduta del muro di Berlino che nel 1989 ha concluso il “secolo breve” (Eric J. Hobsbawm), mettendo così fine alla “guerra fredda”, non ha inaugurato un’era di pace sotto l’egida dell’impero statunitense. Anzi, il dissolvimento del blocco sovietico, il lento ma inarrestabile declino degli USA (di cui le recenti vicende afghane sono un riflesso emblematico) e, soprattutto, la spettacolare ascesa dei giganti asiatici, con in testa l’imperialismo cinese, hanno aperto un secolo che non sappiamo se sarà anch’esso breve, ma possiamo già dire che sarà agitato. Mentre focolai di guerra si accendono incessantemente in tutti i punti caldi del globo, Stati Uniti, Russia e Cina lavorano alacremente a nuove generazioni di armi per poter sostenere un prossimo conflitto mondiale. Hu Xijin, direttore del tabloid in lingua inglese del Partito Comunista Cinese Global Times, scriveva con tipica flemma orientale l’11 settembre 2020: «la società cinese deve manifestare in modo concreto l’ardire di impegnarsi con serenità in una guerra per proteggere i suoi interessi fondamentali e di essere pronta a sopportarne i costi». Sul fronte opposto l’ammiraglio americano James Stavridis, ex comandante supremo delle Forze NATO e del Comando USA in Europa, nel marzo 2021, alla domanda di un intervistatore: “Ammiraglio, nel suo ultimo libro prevede una nuova guerra mondiale con la Cina entro il 2034. È davvero uno scenario credibile?” rispondeva con franchezza yankee: «Purtroppo sì, da qui a 15 anni. Cina e USA sono su fronti opposti su tanti temi cruciali e le distanze resteranno tali, dallo status di Taiwan alle navi nel Mar Cinese Meridionale, dalla guerra cyber a quella dei dazi fino alle violazioni dei diritti umani. Continueranno ad aumentare le proprie capacità militari e potrebbero giungere a un punto di non ritorno.»

 

 

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