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ITALIA Ci siamo. Con la discussione sulla legge di bilancio, dopo tante chiacchiere per il ‘governo del cambiamento’ è giunto il momento di dare dei fatti concreti a chi il 4 marzo ha scommesso sul ‘populismo’ per cercare di ottenere risposte ai problemi che riguardano la propria sopravvivenza quotidiana. Nonostante il successo mediatico delle sparate di Salvini contro presunte ‘invasioni’  di disgraziati, la questione sociale si rivelerà, ancora una volta, decisiva. Anche la vicenda ILVA, che in questi giorni è ancora al centro delle discussioni e riguarda il futuro di 20mila operai, rientra in questo ambito. D’altra parte le contraddizioni di questo governo non fanno che rispecchiare la debolezza di un capitalismo italiano in stato confusionale. ESTERI Il ritorno a una guerra dispiegata in Libia e la crisi valutaria in Turchia non sono avvenimenti slegati, ciascuno confinato nel proprio ambito, la geopolitica nel primo caso e la finanza nel secondo. Perché su una cosa ha ragione Erdogan e cioè che la tempesta che si sta abbattendo sul suo paese è anche (ma non solo) espressione di una guerra economica con cui l’Occidente e i mercati cercano di punire un (ex) alleato passato dalla parte del nemico. E tuttavia in Libia i ‘nemici dell’Occidente’ come appunto Erdogan e Putin hanno buon gioco a inserirsi in uno scontro fratricida interno alla NATO e all’UE. Uno scontro in cui l’Italia si avvia manzonianamente a fare la fine del vaso di coccio tra i vasi di ferro. 


EDITORIALE Governo, il banco di prova è il DEF

La fine dell’estate ha portato con sé l’aumento dello spread tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi, fenomeno in parte prevedibile data la decisione della BCE di mettere termine al quantitative easing entro il prossimo dicembre. L’aumento del differenziale non è dovuto solo a questo e oggi non si può chiamare in causa un attacco speculativo contro i conti italiani come successe al tempo dell’arrivo di Monti. Ciò che pesa è l’incertezza – motivata – sul futuro economico dell’Italia.

Incertezza che ha ragioni strutturali, ma che sul piano politico è rappresentata dalle insanabili contraddizioni del governo Conte: un esecutivo nato male che rischia di finire peggio.

Nato male perché frutto del compromesso tra due forze politiche mosse da spinte sociali diverse e antitetiche: lo schema del Nord ricco che non vuole pagare le tasse, rappresentato dalla Lega, e del Sud povero che chiede assistenza, base dell’exploit dei 5 Stelle, e senz’altro rozzo ma in fondo realistico.

Si tratta di forze politiche – è bene sempre ricordarlo – che, oltre a rappresentare rispettivamente l’11% e il 21% degli aventi diritto al voto e quindi essendo tutt’altro che maggioritarie nella società italiana, si erano presentate alle elezioni all’interno di blocchi contrapposti e con programmi alternativi.

Il risultato è stato non un’impossibile alleanza, ma un notarile contratto, somma delle istanze degli uni e degli altri, con totale spregio di quel principio di realtà che vuole le maggiori spese compensate da maggiori entrate. Per giunta un contratto squilibrato perché mentre il securitarismo della Lega porta consensi quasi a costo zero, per mantenere le promesse dei grillini ci vogliono molti soldi. Così come costa cara l’attuazione dell’unico vero punto in comune a entrambi: l’abolizione della legge Fornero.

Persino l’avversione ai burocrati di Bruxelles, che apparentemente accomuna entrambi, vede nei fatti la Lega puntare il dito contro le politiche europee sull’immigrazione e il M5S contro quelle sociali.

Lo squilibrio interno al governo dell’inesistente Giuseppe Conte si è manifestato apertamente nei suoi primi mesi d’attività, con Salvini impegnato in una becera quanto efficace campagna sull’immigrazione e Di Maio impantanato con l’ILVA. Squilibrio che oramai vede prevalere nei sondaggi il socio di minoranza (Salvini) su quello di maggioranza (Di Maio), aprendo così la strada a tentazioni, da parte del primo, di ritorno alle urne.

Una politica avventurista, giocata sulla pelle di poche centinaia di disperati che attraversano il Mediterraneo e agevolata dall’inesistenza delle opposizioni. Forza Italia e PD, veri artefici del disastro politico che ha portato al governo Lega-M5S, oggi non sono in grado di prospettare soluzioni alternative per la borghesia italiana e paventano la caduta del governo più di quanto non lo facciano i diretti interessati, dato che affrontare le urne sarebbe per loro disastroso.

I problemi futuri per il governo non verranno quindi da Berlusconi e Martina, ma da alcuni ineludibili nodi.

Il primo è la legge di stabilità. Flat Tax, reddito di cittadinanza e abolizione della Fornero dovranno a breve fare i conti con la tenuta del bilancio statale e l’approvazione dell’Unione Europea, oltre che, beninteso, con le speranze di chi ha creduto a queste promesse. Tra quest’ultimi è facilmente prevedibile che saranno più i delusi che i soddisfatti e che non basterà il blocco in alto mare di qualche pattugliatore della Guardia Costiera carico di profughi per mitigare la loro delusione.

Il secondo è la vicenda ILVA. Di Maio ha cercato di cavarsi dagli impicci parlando di un ‘delitto perfetto’ attuato dal suo predecessore al Ministero per lo Sviluppo Economico, Carlo Calenda, mettendo così in luce alcune anomalie – vere – di questa vicenda. La sua furbesca conclusione è che lui oramai non può più farci niente e che quindi la palla passa al confronto tra Acelor-Mittal e sindacati. Confronto viziato dal fatto che l’acquirente ha già in tasca un accordo firmato dal precedente governo e tuttora valido, nel quale i livelli dell’occupazione e le condizioni normative e salariali dei lavoratori sono messe nero su bianco. Il ministro Di Maio ha quindi di fronte una scelta alla quale non può fuggire: o accettare l’operato del suo predecessore, spiegando che le promesse agli operai di piena occupazione e agli ambientalisti di chiusura dello stabilimento di Taranto erano solo un simpatico scherzo, o rimettere in discussione i termini dell’accordo con Arcelor-Mittal come fece Macron sulla vicenda dei Chantiers de l’Atlantique. I ‘delitti perfetti’ vanno bene per le serate da Bruno Vespa, non per le trattative sindacali, specialmente se dall’altro lato del tavolo sono seduti i rappresentanti di uno dei colossi mondiali dell’acciaio.

L’ultimo ma non meno importante punto sono i rapporti con l’Unione Europea e la collocazione in essa dell’Italia. È forse il nodo meno urgente, ma anche quello che rivela chiaramente la mancanza di prospettiva strategica di questo esecutivo. Nonostante tutte le sue debolezze l’economia italiana è ancora la terza per PIL e la seconda per produzione industriale di tutta la UE. A ciò non ha mai corrisposto, per ragioni che sarebbe lungo ma non difficile spiegare, un adeguato peso politico e i governi precedenti, in testa Berlusconi e Renzi, hanno sgomitato parecchio – senza riuscirci – per cercare d’inserirsi nel gruppo dirigente insieme a Germania e Francia. Con la Brexit e l’inevitabile rimescolamento degli equilibri a essa seguito, questo obiettivo poteva essere perseguito con qualche speranza in più di successo. La soluzione sconcertante del governo Salvini-Di Maio è stata quella di dare il via a uno scontro frontale con la Commissione Europea, non sull’impostazione generale delle politiche economiche (battaglia difficile ma comprensibile) ma… sulla collocazione di alcune centinaia di migranti raccolti nel Mediterraneo! Con la conseguente prospettiva, perseguita attivamente da Salvini, di collocare l’Italia non nel gruppo di testa con Germania e Francia come imporrebbe la sua economia, ma in quello di Visegrad, con Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, come impone la sua politica. Sarebbe interessante indagare cosa pensano del gemellaggio con l’Ungheria di Orban i proprietari e gli azionisti della piccola e media industria del Nord-Est, parte della base sociale della lega, legati come sono alla ‘Kernel Europa’ di Angela Merkel.

Ma, sotto questa crosta politica, fatta di meschinità elettorale e d’incompetenza, c’è qualcosa di più profondo: la storica incapacità del capitalismo italiano di adeguarsi ai cambiamenti mondiali avvenuti dagli anni ’80 del Novecento in poi, e di esprimere una rappresentanza politica con una visione strategica all’altezza della situazione.

A questo riguardo la vicenda del crollo del ponte Morandi a Genova ha un valore emblematico. Al di là del dolore per la tragedia umana, dell’accertamento delle responsabilità penali, delle polemiche tra il governo e la Società Autostrade, resta il fatto che la seconda potenza industriale d’Europa, mentre ciancia di accordi con la Cina per la ‘via della seta’, non riesce a tenere in efficienza una rete autostradale risalente in gran parte agli anni ’60 del Novecento, permettendo così che il degrado provochi l’interruzione di uno dei suoi snodi più importanti. Così come resta il fatto che i governi precedenti abbiano rinunciato al controllo di una delle principali infrastrutture strategiche per affidarla a una famiglia di magliari (nel senso letterale del termine) in cambio non si capisce bene di che cosa. In una terra di alluvioni e terremoti, un ponte che crolla senza alluvioni e terremoti è davvero un bel biglietto da visita dell’imperialismo italiano per presentarsi nel mondo.

Piero Acquilino 


LIBIA Ed è ancora guerra

Secondo gli osservatori l’Italia è uno dei probabili obiettivi di un’offensiva che favorisce oggettivamente gli interessi della Francia e del generale Haftar ai danni di un capitalismo italiano vulnerabile e politicamente confuso. Uno dei paradossi è che la tensione sui migranti rischia di ritorcersi contro quei politici che l’hanno usata come strumento di consenso – da Minniti a Salvini – mettendo in mano a un pugno di clan libici una potente arma di destabilizzazione di massa.

A Tripoli si combatte. Il ‘Governo di accordo nazionale’ guidato da Hafez al Serraj e riconosciuto dall’ONU ha proclamato la stato di emergenza a Tripoli, dove un razzo è caduto a poche centinaia di metri dall’ambasciata italiana, che è stata sgomberata del personale. I fatti di queste ore smascherano una ‘narrazione’ truffaldina, che ha enfatizzato il problema migranti nascondendo all’opinione pubblica come esso sia solo un tassello all’interno di uno scenario molto più complesso, sottaciuto e sostituito dalle favole sui presunti hotspot in Libia, buoni solo per la campagna elettorale. Come vedremo in realtà gli ingredienti per l’esplosione del 27 agosto c’erano tutti da mesi.

La Settima Brigata all’attacco

Il 27 agosto si sono registrati i primi scontri nei distretti meridionali di Tripoli. Secondo il Lybia Observer ad attaccare quattro delle brigate che si sono spartite il controllo di Tripoli e la Brigata 301 di Misurata (subito allontanata) sarebbe stata la Settima Brigata, detta anche Kaniat (dal clan Kani), di stanza a Tahruna, 65 chilometri a sud est della capitale. Una banda armata che da oltre un anno era alloggiata nel distretto Qasir Ben Ghasir, proprio in seguito a un accordo stipulato con le milizie della capitale. Il comando della Settima Brigata ha affermato che ‘le operazioni militari mirano a ripulire Tripoli dalle corrotte milizie che usano la propria influenza per ottenere dalle banche prestiti per milioni di dollari, mentre la gente comune è costretta ad accamparsi fuori degli sportelli per riuscire ad avere pochi dinari’. In realtà gli scontri sono il frutto di una tensione accumulatasi negli anni (una spiegazione interessante e ricca di dettagli su Internazionale030818). Un cessate il fuoco il 28 agosto e una successiva tregua sono durati poche ore. I combattimenti sono infuriati intorno al campo militare di Yarmook, che in pochi giorni è passato di mano più volte. Secondo fonti locali aerei di Tripoli avrebbero anche colpito Tahruna, quartier generale della Settima Brigata, ma il portavoce del Governo  ha smentito. Nei giorni successivi un’altra milizia, guidata dal comandante Salah Badi, si sarebbe unita alla Settima Brigata. In questi primi giorni di scontro i morti sarebbero stati 27, 91 i feriti. Sabato un missile Grad (di fabbricazione russa) ha colpito un hotel a poche centinaia di metri dall’ambasciata italiana, mentre un altro è caduto su una casa privata vicino all’ufficio del Primo Ministro libico. Il Libya Times afferma che il primo missile puntava proprio sulla sede diplomatica. Dopo che il capo della Settima Brigata, Abdel Rahim al Kani, ha annunciato un attacco imminente su Tripoli, al Serraj ha proclamato lo stato di emergenza. Domenica 400 detenuti hanno approfittato del caos creatosi per evadere dal carcere di Ain Zara (si tratterebbe perlopiù di ex sostenitori di Gheddafi), mentre numerosi profughi in queste ore vengono trasferiti verso aree più al riparo di combattimenti.

L’ennesima guerra per procura

Dopo lo scoppio della guerra civile nel 2011 e l’intervento franco-britannico, appoggiato amministrazione Obama e, obtorto collo, dal governo Berlusconi, la Libia è rimasta in una situazione di perenne instabilità. L’ascesa al potere di Hafez al Serraj, erede di una famiglia che aveva ricoperto incarichi importanti all’epoca del re Idriss e ruoli minori nel regime di Gheddafi, non ha cambiato il quadro, perché il suo è palesemente un governo fantoccio che si regge grazie al sostegno formale dell’ONU (e, in loco, dei paesi confinanti del Maghreb), ma con l’opposizione, più o meno esplicita, di alcuni tra i suoi membri più influenti, primo tra tutti la Francia. Parigi, infatti, già con Hollande, si era legata al generale Khalifa al Haftar, un tempo vicino a Gheddafi poi diventato suo oppositore, fiero nemico delle fazioni islamiche, che da Bengasi controlla la Cirenaica, la parte orientale del paese che include anche la cosiddetta mezzaluna petrolifera, e gode del sostegno dell’Egitto, della Russia e degli Emirati Arabi Uniti. Ad Haftar la Francia ha fornito armi e truppe speciali, gli EAU un aeroporto a sud di Bengasi per fornire appoggio dall’alto alle sue milizie (reparti del vecchio esercito di Gheddafi più tribù. La Russia gli fornisce armi tramite l’Egitto e stampa la carta moneta utilizzata nei territori controllati dal suo esercito. Sull’altro fronte Turchia e Qatar sostengono i gruppi islamici, mentre nel sud, totalmente fuori dal controllo del Governo, crescono le bande che hanno adottato il brand dell’ISIS. Il 18 agosto il Times scriveva che nella zona a sud della città di Sirte si sarebbero già raggruppati un migliaio di combattenti pronti a far rivivere il sogno del Califfato in Libia dopo la sconfitta in Siria e in Iraq.

La questione del rapporto con l’Islam è una di quelle al centro delle discussioni. Mentre infatti al Serraj punta al coinvolgimento di fazioni religiose ‘moderate’ nel governo (i Fratelli Musulmani in primo luogo), Haftar è contrario. Il suo sponsor egiziano al Sisi infatti nei Fratelli Musulmani vede il nemico numero uno e teme di rimanere ‘accerchiato’ se tra i gruppi islamici che operano nel Sinai e quelli attivi nel deserto libico dovesse crearsi un’alleanza.

La religione però è, come sempre, solo un pretesto. Le ragioni di questa ennesima guerra per procura le spiegava lapidariamente il Sole24Ore0060316 due anni e mezzo fa, ma l’analisi ci pare ancora efficace (e la fonte al di sopra di ogni sospetto):

La guerra è in realtà un regolamento di conti e una spartizione della torta tra gli attori esterni e i due poli principali, Tripoli e Tobruk, che hanno due canali paralleli e concorrenti per l’export di petrolio.

Qui si possono liberare alcune delle più importanti risorse dell’Africa: il 38% del petrolio del continente, l’11% dei consumi europei. E’ un greggio di qualità, a basso costo, che fa gola alle compagnie italiane in tempi di magra. In questo momento a estrarre barili e gas dalla Tripolitania è soltanto l’ENI: una posizione, conquistata manovrando fazioni e mercenari, che agli occhi dei nostri alleati deve finire’.

FIGURA 1: Le forze in campo (settembre 2016) secondo LIMES

Si tenga presente che oggi la produzione di greggio è di circa 300mila barili al giorno, rispetto al milione ante 2011. Il giudizio del Sole24ore si concentrava esclusivamente sull’importanza dei giacimenti libici, ma sarebbe sbagliato sottovalutare la posizione strategica che la Libia occupa in riva al Mediterraneo e a cui deve un ruolo di primo piano nei traffici, come zona di transito per le merci provenienti dal nord ovest e dal nord est africano e arrivate lì dall’America (Latina in primis) e dall’Asia (droga, esseri umani, armi ecc.). Per l’economia globale basata sul rapido trasferimento di merci da un capo all’altro del mondo l’apertura di un nuovo corridoio logistico può rendere marginali altre vie che corrono in parallelo, sono controllate da altri soggetti e su cui sono già stati fatti investimenti per miliardi di dollari. Al Serraj recentemente ha firmato un accordo con la Cina per coinvolgere la Libia nel megaprogetto di una ‘Nuova Via della Seta’ che congiungerà l’Estremo Oriente all’Europa (mentre la Corea del Sud si avvale dei buoni servigi della Tunisia per penetrare in Libia). E’ chiaro che per la Cina questo patto significa la possibilità di aggirare i Balcani e i paesi dell’est europeo nel caso vi incontrasse delle resistenze ai suoi progetti.

Macron e Haftar

Francia, Gran Bretagna, Italia e USA dopo l’inizio dei combattimenti hanno deplorato la situazione e fatto appello a una fine degli scontri. Ma in realtà hanno interessi contrastanti e non si impegnano granché per nasconderlo. La Francia con Macron ha proseguito la politica di sostegno del precedente governo Hollande verso Haftar e all’Egitto, cercando di ritagliarsi un ruolo adeguato al proprio status di ex potenza coloniale dominante nel quadrante nordoccidentale africano. Il 25 luglio 2017 Macron ha convocato a Parigi al Serraj e Haftar per un vertice a tre, nel quale ha confermato il riconoscimento francese del governo della Cirenaica, formalmente illegittimo (ma ‘militarmente legittimo’ secondo l’originale calembour coniato per l’occasione) e si è candidato ad artefice della soluzione del problema libico. Il vertice è stato organizzato dal Presidente insieme col Ministro degli Esteri Le Drian, che già come Ministro di Hollande aveva seguito personalmente il dossier libico, scavalcando – dicono fonti autorevoli – la stessa diplomazia francese. La via intrapresa in quell’occasione è stata ripresa lo scorso 29 maggio con una nuova conferenza parigina. Stavolta, oltre ad Haftar e al Serraj, Macron aveva convocato alla sua corte il Presidente della Camera dei Rappresentanti di Tobruk, Aguila Saleh Issa, e il capo dell’Alto Consiglio di Stato, Khalid al Misri, esponente dei Fratelli Musulmani, ma altre fazioni di peso, ad esempio le milizie di Misurata, non erano state invitate. Il documento politico ‘approvato oralmente’(miracoli della diplomazia) a maggio prevede la riunificazione del paese, con lo scioglimento del Parlamento di Tobruk, la fusione delle due banche centrali ed elezioni entro il 10 dicembre. Il piano ha subito ha suscitato l’ostilità dell’Italia, che ha investito tutta la sua politica in Libia, in particolare per quanto riguarda il contenimento dei flussi migratori, sul regime di al Serraj (sul vertice e sull’atteggiamento italiano Internazionale290518).

Trump e Haftar

Un altro capitolo interessante riguarda i rapporto tra Haftar e Washington. Anche gli USA formalmente appoggiano la politica dell’ONU e sostengono il governo di Tripoli. Tuttavia mantengono relazioni sottobanco anche con Haftar, dovute anche alle loro passate relazioni. Del resto il generale a tutt’oggi è cittadino americano. Egli infatti, dopo aver sostenuto il colpo di Stato di Gheddafi nel 1969 ed essere stato inviato dal raìss e stato fatto prigioniero in Ciad, ma disconosciuto dal regime libico (che negava alcun coinvolgimento in quel conflitto), mise mano a un golpe ma fu arrestato. In molti sostengono che fosse stato assoldato dalla CIA e potrebbe esserci qualcosa di vero, visto che tre anni dopo venne rilasciato ed esiliato negli USA, dove ottenne il passaporto e visse fino al 2011 non lontano dalla sede centrale dell’Agenzia a Langley. Quando scoppia la rivolta Haftar rientra in Libia e diventa uno dei protagonisti della politica nazionale, imponendosi in particolare come spietato nemico del fondamentalismo. Un anno fa –secondo Emadeddin Zahri Muntasser, collaboratore del Libya Observer, ma anche dell’Huffington Post e di Foreign Policy –Haftar veniva convocato a Roma dal vicedirettore della CIA, che gli avrebbe chiesto di assumere un atteggiamento meno imbarazzante per l’amministrazione amwericana. Due mesi dopo Haftar gli rispondeva assoldando due importanti lobby, Keystone Strategic Adviser e Grassroots Poitical Consulting, per fare pressione sul Congresso e convincere l’amministrazione Trump a investire sulla sua famiglia per dare un futuro alla Libia. A dir la verità Trump ha mantenuto un atteggiamento oscillante e sospeso tra il sostegno alla politica dell’ONU e una strategia volta a lasciare che anche in Libia il vuoto lasciato dal crescente disimpegno americano nel Mediterraneo sia occupato dagli alleati: Egitto, EAU e Israele.

Roma investe su Tripoli

Nelle 10 pagine de La politica libica dell’Italia (giugno2016), Roberto Aliboni, consulente dell’Istituto di Affari Internazionali riassume, nei suoi tratti fondamentali, la strategia perseguita del governo Renzi, in quattro punti: appoggio alla politica di mediazione dell’ONU, disponibilità a inviare truppe italiane e ad assumere la guida di un’eventuale missione internazionale, contenimento dei flussi migratori e ‘infine (Renzi) ha appoggiato con discrezione gli sforzi della compagnia petrolifera nazionale, l’ENI, per salvaguardare quanto più possibile la sua produzione ed esportazione’. Dopo la caduta di Renzi il Governo Gentiloni ha sostanzialmente proseguito sulla strada tracciata dl suo predecessore (di cui del resto Gentiloni era proprio il Ministro degli Esteri), portando a casa un accordo da 5 milioni di dollari sotto la regia dell’ex Ministro degli Interni Minniti con al Serraj e alcune bande criminali per ridurre le partenze di migranti verso le coste italiane fornendo denaro (5 milioni di euro, secondo fonti internazionali) ed equipaggiamenti alla Guardia Costiera di Tripoli. Allo stesso tempo però il raggio della politica italiana si ampliava, arrivando a includere nella strategia antitrafficanti anche la Libia meridionale e il Niger, dove prima delle elezioni Alfano aveva inaugurato la prima ambasciata italiana a Niamey e il 16 gennaio il Parlamento aveva approvato (col voto contrario del M5S e l’astensione della Lega, mentre Forza Italia aveva votato a favore) l’invio di una missione militare con l’obiettivo proprio di vigilare sul transito dei trafficanti nella zona al confine con la Libia, già presidiata (pur senza troppo impegno) dai parà francesi della base di Camp Madama (in zona ci sono anche truppe americane).

Con l’arrivo di Salvini, nonostante il mancato ‘passaggio di consegne’ raccontato da Minniti, il senso della politica italiana in Libia rimane lo stesso. Il ‘Governo del cambiamento’ tanto per cambiare promette a Tripoli altre 10 motovedette, 2 navi e 1,4 milioni di euro, mentre in Libia arrivano in visita ufficiale sia Salvini sia la Ministra della Difesa Trenta per confermare il sostegno italiano ad al Sarraj (anche se quest’ultima ha dichiarato che in seguito ‘cercherà di vedere anche Haftar’).

L’attivismo italiano ha suscitato la reazione di Parigi, le cui pressioni sul governo locale hanno spinto prima alcune fonti governative a smentire che Niamey fosse al corrente dell’arrivo dei militari italiani, poi a fare in modo di bloccare la missione, con l’eccezione di alcune decine di militari mandati in avanscoperta e che oggi sono ospiti in una base militare USA, senza alcun riconoscimento ufficiale internazionale. Alla resistenza di Parigi si sono aggiunte anche iniziative locali. Già l’anno scorso, alla notizia dell’accordo economico tra Minniti e alcune milizie per bloccare gli imbarchi, altre milizie avevano creato disordini per esprimere la propria insoddisfazione. Lo scorso giugno invece a Ghat, nella Libia meridionale, alla notizia dell’arrivo di una delegazione italiana per preparare il terreno a un contingente militare. Il locale consiglio degli anziani ha dichiarato che ‘tutti coloro che riceveranno gli italiani verranno considerati traditori’, mentre alcune milizie locali in passato fedeli a Gheddafi prendevano il controllo dell’aeroporto per impedire l’atterraggio della delegazione. Ad agosto, poco prima dell’offensiva della Settima Brigata su Tripoli, Haftar si recava in visita prima in Niger, per discutere una collaborazione tra l’esercito nigerino e quello libico (cioè il suo) contro il traffico di migranti e il fondamentalismo islamico, mentre due settimane dopo, secondo il sito inglese The New Arab, era a Mosca per un incontro senza preavviso con imprecisati funzionari russi. Altre fonti rivelano che addirittura a luglio il generale avrebbe incontrato segretamente funzionari dei servizi segreti israeliani e concordato la creazione di una base del Mossad nel sud della zona controllata dai suoi uomini.

Vaso di coccio tra i vasi di ferro

La politica italiana in Libia è condizionata dal passato coloniale e dagli interessi economici, che la rendono allo stesso tempo esperta ma anche vulnerabile. Come osserva Aliboni nello scritto citato ‘L’Italia, come gli altri paesi occidentali, non ha legami particolari con il mondo islamista moderato della Libia. Perciò una larga maggioranza degli islamisti libici tendono a considerare gli italiani come gli ex sostenitori di Gheddafi che essi sono in effetti stati. Inoltre i passati legami coloniali tra l’Italia e la Libia sono strumentalizzati dai nemici di al-Sarraj, islamisti e non, per indebolire il Governo di accordo nazionale’. Il nostro paese presenta in particolare due talloni d’Achille: il petrolio e gli sbarchi. Finora, come si è detto, l’accordo con Tripoli è servito sia a garantire l’ENI, che di recente tra l’altro ha scoperto alcuni giacimento off shore al largo delle coste libiche, sia ad abbattere il numero degli sbarchi. Tuttavia Haftar è in grado di mettere a segno ritorsioni  favorendo l’afflusso di migranti (e c’è chi dice che lo abbia già fatto qualche mese fa) e di recente ha concluso un colpo che potrebbe creare qualche grattacapo anche all’ENI. A giugno infatti, dopo aver ripreso il controllo di alcune zone della mezzaluna petrolifera, temporaneamente sottrattogli da alcuni gruppi islamici, Haftar ne ha approfittato per affidare i terminal petroliferi di Sidra e Ras Lanuf, precedentemente gestiti dalla National Oil Company, con sede a Tripoli, ma con una direzione relativamente indipendente, a una filiale di Bengasi della NOC sottoposta alla propria autorità. Una mossa che secondo Libya Security Studies ha creato tensioni tra il generale e i suoi stessi sponsor francesi, che vorrebbero sospingerlo al potere, in un quadro di legalità formale, ma che è un’arma d ricatto prima di tutto nei confronti della compagnia petrolifera italiana. D’altra parte l’ENI ha recentemente inaugurato gli impianti per lo sfruttamento del giacimento di gas off shore di Zohr, scoperto nelle acque egiziane alla fine del 2015. Si tratta del più grande giacimento di gas del Mediterraneo ed è naturale che i governi italiani siano attenti a non guastarsi i rapporti con l’Egitto, come del resto hanno dimostrato anche nel periodo seguito alla scomparsa di Giulio Regeni, proprio mentre l’ENI trattava con al Sisi per ottenere la concessione di Zohr.

Questa ricostruzione, pur parziale, degli avvenimenti di questi giorni e dello scenario in cui essi si sviluppano, ci mostra come la narrazione a cui ci hanno abituato i media (e la politica) tratti in modo estremamente superficiale l’intreccio di interessi geopolitici al centro delle vicende libiche e di cui i flussi migratori sono allo stesso tempo un aspetto specifico, un pretesto per intervenire nel paese dall’esterno e anche, in qualche misura, un’arma di pressione sull’Europa. E fissa alcuni punti fermi: non c’è alcuna questione umanitaria. Primo: lo scontro in Libia è legato essenzialmente a questioni economiche e di potere. Se lo riconosce persino il quotidiano di Confindustria non c’è da dubitarne. Secondo: sotto il sostegno della ‘comunità internazionale’ all’ONU e al governo di Tripoli si nasconde uno scontro tra schieramenti che hanno come protagonisti le stesse potenze che combattono in Siria, sia pure con posizionamenti non totalmente sovrapponibili, in una analoga logica di scontro per procura a difesa dei propri interessi nella regione. Terzo: l’Italia è sempre più in rotta di collisione con la Francia, isolata dal resto d’Europa, e deve affrontare una situazione per lei vitale, a pochi chilometri dalle proprie coste, col problema immigrazione e coi propri approvvigionamenti energetici a rischio, vero e proprio vaso di coccio tra i vasi di ferro. Una situazione paradossale, in cui una politica, che da Minniti a Salvini ha cercato di sfruttare gli sbarchi come arma elettorale, così facendo ha messo in mano alle milizie e ai leader libici un potere destabilizzante che neanche si sarebbero sognati.  Ragion per cui – come avevamo sottolineato nell’ultima newsletter –  il capitalismo italiano è in cerca, non da oggi, di partner in grado di far spostare l’ago della bilancia a suo favore, come per esempio la Cina. Partner che in ogni caso si faranno pagare profumatamente un’eventuale sponda concessa agli interessi italiani. 


TURCHIA Dopo il golpe la crisi della lira

La crisi della lira turca, come scrive Alberto Gasparetto sul sito dell’ISPI, ha ‘natura squisitamente geopolitica’ e potrebbe avere conseguenze significative sulla base sociale di Erdogan e, più in generale sulle classi sociali inferiori, inclusa una classe operaia sindacalizzata e spessoinserita nell’indotto di grandi imprese occidentali (tra cui le italiane FIAT e Pirelli). Una crisi endogena ma anche un’occasione per punire una politica estera diventata negli anni sempre più antioccidentale, una guerra finanziaria a base di rating e dazi.

Dall’inizio dell’anno la lira turca ha perso oltre il 40% del proprio valore (vedi il grafico del Financial Times qui sopra). Per un paese con un forte deficit della bilancia commerciale (nel 2017 la Turchia ha importato per 206 miliardi di euro, contro esportazioni per 139 miliardi) significa un aumento dei prezzi che va a colpire la popolazione, in particolare le classi sociali inferiori, e infatti il tasso di inflazione ufficiale è passato dal 15,8% di luglio al 17,9% di agosto, ma secondo il professor Steve Hanke, della John Hopkins University, negli ultimi giorni l’inflazione sarebbe schizzata al 100% (Sole24Ore030918).

Se questa crisi è l’inevitabile conseguenza di una crescita economica trainata principalmente da un forte indebitamento estero delle banche turche finanziare lo sviluppo con capitali stranieri, d’altra parte come scrive Alberto Gasparetto su ISPI280818, la crisi della lira turca ’ha natura squisitamente geopolitica’. La Turchia in questi ultimi anni e sotto la direzione di Erdogan ha compiuto una rotazione strategica di 180 gradi, abbandonando di fatto l’orientamento atlantista e il ruolo di prima potenza militare NATO in Medio Oriente per schierarsi progressivamente, in Siria come in Libia, coi nemici degli USA e della NATO, in primo luogo Russia e Iran.

Il fallito colpo di Stato del 2016 ha fatto precipitare definitivamente le già all’epoca travagliate relazioni con gli USA. Erdogan ha accusato da subito infatti il suo ex alleato Fetullah Gulem, esule negli Stati Uniti, di essere stato il cervello del golpe. Lo scontro di questi giorni con Trump riguarda le sorti di un pastore evangelico di nazionalità americana, Andrew Brunson, arrestato proprio dopo il fallito colpo di Stato e di cui Trump chiede la liberazione, che Erdogan nega, considerandolo un emissario del suo nemico numero uno. Ma la vicenda Brunson sembra piuttosto un pretesto per regolare conti ben più antichi e di portata politica più generale. Le sanzioni americane, il declassamento del rating delle banche turche da parte di Moody’s, la minaccia di ulteriori provvedimenti da parte degli USA, sono – su questo Erdogan ha pienamente ragione – le bombe di una guerra finanziaria scatenata dagli USA e dai mercati finanziari contro una politica estera turca che danneggia l’Occidente. Ma questo – come spiega Gasparetto – potrebbe spingere la Turchia ancor più nelle braccia di un paese come il Qatar, tra i massimi finanziatori del fondamentalismo religioso.

L’articolo del Financial Times che segue spiega come i mercati stiano utilizzando il potere di ricatto consegnato loro dal fatto di essere proprietari di gran parte del debito delle banche turche per influenzare la politica di Erdogan. La richiesta di politiche monetarie restrittive, cioè di tassi di interesse più alti, una proposta di scuola, implica da una parte maggiori guadagni per gli investitori, dall’altra una stretta sui consumatori e i risparmiatori, che colpirebbe la società turca, inclusa quella classe media arricchitasi grazie alla crescita economica di questi anni e legata a Erdogan, minandone una base di consenso già in lento ma progressivo declino. Grande e piccola borghesia poi potrebbero cercare di scaricare a loro volta il peso di questa situazione sulle classi sociali inferiori, alimentando ulteriormente lo scontento e allargandone la base. Insomma una vera e propria destabilizzazione della società truca a cui potrebbe seguire magari un tentativo di regime change, a cui Erdogan non sarebbe in grado di reagire con la stessa forza di tre anni fa. Rimane d chiedersi quale sarebbe l’effetto di una strategia di questo genere in una società in cui il pericolo di un’avanzata di forze islamiche reazionarie non appare compensato da un’analoga crescita di organizzazioni laiche di sinistra. L’HDP, il Partito Democratico dei Popoli, curdo, non sembra al momento essere all’altezza di gestire una situazione così insidiosa e complessa.

La Turchia d’altra parte dispone di una classe operaia organizzata e sindacalizzata, che negli anni passati è riuscita in alcune occasioni a dimostrare una forza non differente, ad esempio con gli scioperi nel settore dell’auto. Si tratta di decine migliaia di lavoratori che fanno parte dell’indotto o di produzioni delocalizzate da parte di imprese europee e anche italiane (Fca e Pirelli le due più importanti Lettera43100818). Una situazione che chiama in causa dunque anche il sindacato italiano e mette una volta di più in rilevo la necessità (e, di fatto, l’assenza) di un sindacato internazionale.

NOTA: dal momento che l’articolo del FT contiene diversi tecnicismi, abbiamo inserito dei link che indirizzano a pagine web con la spiegazione dei termini.


La lira turca scivola sul pastore evangelico e il declassamento delle banche

La valuta ha perso circa il 40% quest’anno

Laura Pitel, Financial Times, 29 agosto 2018

La lira turca ha incassato un nuovo colpo dopo che l’agenzia di rating Moody’s ha abbassato la valutazione delle istituzioni finanziarie del paese di 20 punti e che la querelle con Washington sul destino di un pastore americano detenuto nelle carceri turche è andata avanti. Mercoledì, dopo che Moody’s aveva parlato ‘un sostanziale aumento del rischio di uno scenario di declino’ per banche che ‘dipendono in modo significativo d fondi in valuta straniera’, il dollaro è balzato a 6,43 lire turche, un calo di oltre il 2% per la sofferente divisa turca.

Nei prossimi 12 mesi le banche turche dovranno rifinanziare circa 77 miliardi di dollari di obbligazioni in valute straniere e prestiti sindacati – ha detto Moody’s –, una cifra vicina al 41% della raccolta finanziaria complessiva delle banche. Sempre mercoledì nuovi dati hanno mostrato che l’indice economico turco ad agosto è caduto in modo importante, da 92,2 a 83,9. ‘Penso sia una lettura abbastanza chiara di un forte rallentamento economico’ – dichiara Tim Ash, stratega alla società di investimenti BlueBay.

FIGURA 2: indice della fiducia economica oggi (Fonte: Istituto Turco di Statistica)

La Banca Centrale turca ha fatto resistenza agli appelli lanciati dagli investitori internazionali affinché alzasse drasticamente il tasso di interesse di riferimento per rafforzare la valuta, che ha perso il 40% del proprio valore dall’inizio dell’anno. L’istituzione viene percepita generalmente come ostaggio tenuto sotto forti pressioni da parte del presidente Recep Tayyip Erdogan, nemico dichiarato degli interessi alti.

Mercoledì i media hanno riferito che Berat Albayrak, il Ministro delle Finanze turco, ha insistito nell’affermare che non ci sono ‘grandi rischi’ per l’economia e il sistema finanziario nazionali, perché essi continuano a rimanere forti nei fondamentali. ‘Non vediamo grandi rischi per quanto riguarda la nostra economia e il nostro sistema finanziario, perché la nostra economia gode di saldi fondamentali’, ha detto nei commenti rilasciati ai giornalisti, di ritorno dalla sua visita a Parigi, come ha riferito il quotidiano Hurriyet. Albairak, che è il genero di Erdogan, ha affermato anche che la Turchia ha un debito pubblico e privato bassi e un ‘robusto’ sistema finanziario.

A metà agosto, dopo che la valuta turca aveva dato prova di una forte volatilità, in seguito alla crescente polemica con Donald Trump a proposito del pastore americano prigioniero in Turchia, la Banca Centrale aveva interrotto i prestiti mediante pronti contro termine a una settimana, costringendo le banche a comprare denaro a un più alto tasso overnight – una mossa che gli analisti hanno paragonato a un aumento occulto dei tassi di 1,5 punti percentuali. La misura – insieme ai passi intrapresi dall’autorità di vigilanza per frenare le vendite allo scoperto – ha avuto qualche effetto positivo nel sostenere la lira, risollevandola dal record negativo di un cambio 1 dollaro=7,2 lire.

Gli investitori tuttavia hanno osservato che è improbabile che ciò sia sufficiente a garantire stabilità a lungo termine alla valuta. Erdogan ha ripetuto che non ha intenzione di cedere nella disputa con Trump, nonostante l’annuncio di sanzioni americane nei confronti della Turchia e avvertimenti secondo cui altri provvedimenti seguiranno se il pastore, Andrew Brunson, non verrà rilasciato. Il presidente turco ha accusato gli Stati Uniti di portare avanti una ‘guerra economica’ contro un membro dell’Alleanza Atlantica.

‘La crisi della lira non è stata ancora superata’ – ammonisce Esther Reichelt, analista valutaria alla Commerzbank a Francoforte. ‘Le paure scatenate nei mercati riguardo a come la turbolenza dei cambi a metà agosto si rifletterà sulle future performance sono in crescita. I dati sull’inflazione ad agosto verranno pubblicati lunedì prossimo e mostreranno quanto sia urgente mettere in atto politiche monetarie per reagire al trauma. Anche se è assai probabile che alla sua prossima riunione, il 13 settembre, la Banca Centrale turca ignorerà questa necessità, rendendo più probabile in realtà una continuazione della crisi’.

 

 

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