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BRASILE In Italia un fronte ampio e trasversale scende in campo e in alcuni casi in piazza a sostegno dell’ex presidente del Brasile Lula, da pochi giorni in carcere per le note vicende di corruzione di cui è stato accusato nella Mani Pulite brasiliana. Le accuse su cui si basa la magistratura destano dubbi e l’accanimento nei confronti di Lula è evidente. Ciò non rimuove il fatto che gli anni di Lula e del PT siano stati notoriamente caratterizzati da una corruzione dilagante. Lula ha dovuto ammettere che i voti alle sue leggi venivano comprati pagando lauti mensili a parlamentari di ogni colore politico. Ma più del giudizio penale pesa il giudizio politico su una stagione che ha segnato non solo il Brasile ma l’intera America Latina e che sembra chiudersi per via giudiziaria. SOCIETA’ Mentre pare che dilaghino i partiti post-ideologici e il superamento di vecchie categorie sia all’ordine del giorno, le ricerche dei sociologi riesumano la società divisa in classi e persino la lotta di classe. Le contraddizioni che si apriranno nei prossimi mesi nella situazione politica italiana potrebbero essere l’occasione per ritornare su giudizi affrettati e ragionare in termini più scientifici sull’evoluzione di politica e società. PALESTINA Il massacro di civili inermi ai confini di Gaza segna un probabile cambio di strategia di Hamas, ma anche un’impreparazione del governo di Israele a rispondere fuori da uno schema basato sulla pura forza. Se questo aprirà contraddizioni nella società israeliana è da vedersi, ma qualche segnale in tal senso comincia ad affiorare.


Lula, una vittima?

In Italia l’arresto di Inàcio Lula Da Silva, ex presidente del Brasile e nume tutelare del movimento no global nei primi anni 2000, ha suscitato un’ondata di solidarietà trasversale: dall’abbraccio scontato del Manifesto100418, secondo cui ‘la colpa di Lula è avere reso possibile un altro mondo’ e della FIOM (‘Siamo con Lula presidente metalmeccanico’, Rassegna090418), fino a FamigliaCristiana080418, per cui Lula è stato arrestato perché ‘rappresenta le classi meno agiate del paese’ e a Linkiesta070418, dove il bocconiano Diego Corrado definisce l’incarcerazione dell’ex presidente una ‘pagina vergognosa’. Senza dimenticare l’appello a ‘Garantire elezioni libere e giuste, non impedire la candidatura dell’ex presidente Lula’, firmato tra gli altri da Romano Prodi, Massimo D’Alema, Piero Fassino, Susanna Camusso, Don Luigi Ciotti. A fare la figura dell’antipatico (del resto ci è abituato) in questo clima giubilatorio ci pensa Paolo Mieli che, sul Corriere090418, chiede alla sinistra: ‘Ma non dicevate che le sentenze vanno rispettate sempre?’ A questo proposito, ironia della sorte, Rosa Weber, membro della Corte Suprema, che col suo voto ha fatto pendere la bilancia contro le istanze degli avvocati di Lula, ha citato Gustavo Zagrebelski per argomentare il proprio voto.

Sull’argomento abbiamo deciso di tradurre un’analisi di Jorge Altamira, politico e intellettuale marxista argentino, profondo conoscitore dell’America Latina e del Brasile, dove ha vissuto per alcuni anni. Altamira dà una lettura politica dei fatti e lo argomenta: al di sotto delle ragioni dei tribunali – osserva – c’è lo scontro tra gli interessi materiali che influenzano la vita di un paese e le grandi scelte di politica economica, che è uno scontro per il potere. Lula è stato accusato di aver ricevuto un lussuoso appartamento con vista mare dal colosso delle costruzioni Odebrecht in cambio della concessione di appalti. Le prove appaiono poco circostanziate. Il chiaro messaggio rivolto dal capo dell’esercito alla Corte Suprema prima del verdetto è irrituale, così come molte delle procedure legali adottate. La volontà di far fuori l’ex presidente dalle prossime elezioni è indubbia.

Tuttavia – spiega Altamira – il fenomeno, in Brasile endemico, della corruzione negli anni di Lula e del PT divenne strategia di governo. A un certo punto Lula fu costretto a scusarsi pubblicamente per lo scandalo dei mensalao, i compensi mensili che il suo governo pagava a parlamentari di ogni colore politico perché votassero i suoi provvedimenti. L’ex presidente ha sempre dichiarato di non esserne stato a conoscenza e, se fosse vero, ciò lo assolverebbe dal punto di vista della giustizia. Ma dal punto di vista politico? Poi c’è, soprattutto, il giudizio su una politica economica e sociale che per qualche anno, in un’epoca di crescita dell’economia sudamericana, ha coperto favori e prebende alle imprese brasiliane (spesso in cambio di tangenti) sbandierando un aumento della spesa pubblica a favore delle classi sociali più deboli. Una politica simile a quella portata avanti in Argentina dai governi della famiglia Kirchner, finita anch’essa negli scandali. Qual è oggi il bilancio finale dal punto di vista di quelle stesse classi sociali? La risposta a questa domanda pesa ben più di un attico con vista mare a Guarujà.


Brasile: nella crisi politica irrompe il golpismo

Jorge Altamira, Prensa Obrera, 6 aprile 2018

La Corte Suprema di Giustizia del Brasile, per un voto, 6 contro 5, ha tolto a Lula la possibilità di attendere in libertà l’ultimo appello, a cui ha diritto, contro la condanna a dodici anni di carcere emessa nei due gradi di giudizio precedenti. L’aspettativa dell’ex presidente era che il prolungarsi di tale ricorso fosse sufficiente a permettergli di partecipare alle elezioni previste per il prossimo ottobre. L’applicazione immediata della pena sventa questo proposito: una legge approvata proprio sotto il governo Lula infatti esige che i candidati abbiano ‘una fedina penale immacolata’ per essere ammessi dalla Commissione Elettorale.

Un editorialista del giornale La Folha di San Paolo giudica la decisione della Corte Suprema con queste parole. ‘Lula, ex presidente della Repubblica, è vittima di un processo fatto di eccezioni alle regole. Interpretazioni esotiche della legge si stanno infiltrando in ambienti della magistratura e del Ministero della Giustizia allo scopo di dar vita a quello che chiamerei il “Partito della Polizia”, una specie di demone che dovrebbe tutelare la democrazia brasiliana. I carri armati non devono comportarsi come giudici. I giudici non devono comportarsi come carri armati’. Lula deve beneficiare del diritto costituzionale alla ‘presunzione di innocenza’ fino a che non arrivi l’ultimo grado di giudizio – che potrebbe respingere la condanna comminata ai gradi precedenti. D’altra parte il giudice Sergio Moro ha ordinato l’incarcerazione di Lula senza aver prima ottenuto un mandato da parte della Corte Suprema. Un magistrato che fa parte della Corte ha dichiarato che la prossima settimana revocherà l’ordine di incarcerazione perché la sentenza finale deve avvenire al termine dei distinti gradi di giudizio stabiliti per il processo penale. La condanna per aver accettato un appartamento nella città di Guarujà è supportata da prove molto deboli, al punto che lo stesso Sergio Moro ha dichiarato che la sua sentenza era basata, soprattutto, sulle sue ‘intime convinzioni’ (in contrasto con le prove fattuali) e sui legami che egli presume unire Lula con la società OAS, a sua volta collegata alla Odebrecht, che avrebbe regalato a Lula l’appartamento in questione. E’ ovvio che l’allusione de la Folha ai ‘carri armati’ suggerisce che la decisione della Corte Suprema sia stata strappata alla magistratura dall’esercito, il cui comandante in capo, l’aveva chiesta tramite un tweet nella tarda serata di mercoledì 4 aprile.

Forma e contenuto

In ogni caso per descrivere correttamente la crisi politica che ha colpito il Brasile dopo la richiesta di impeachment di Dilma Roussèf è necessario decifrarne i contenuti e il posizionamento che hanno assunto tutte le forze in campo. I formalismi ‘istituzionali’, inclusi quelli giudiziari, infatti, non fanno che distogliere l’attenzione dalle ragioni di fondo di questa crisi o, se vogliamo, persino le nascondono.  Quei formalismi e le decisioni che mediante essi vengono prese trovano una spiegazione soprattutto in ciò che essi garantiscono a interessi concreti ma mai espressi chiaramente.

La corruzione di massa in Brasile alberga da tempo immemorabile. Il regime schiavista che ha disegnato la struttura del paese nel corso della sua storia non è mai stato rimosso realmente, ma ha semplicemente cambiato volto. L’irresponsabilità del potere rispetto alle masse qui è molto più profonda che in qualunque altro paese con un grado analogo di sviluppo, persino degli stessi altri paesi dell’America Latina. L’ampia penetrazione del capitale finanziario in ogni piega della società non ha fatto altro che ampliare questa distanza. La corruzione incontrollabile ha le sue radici in questa conformazione storica del paese. Sotto il governo del PT questo fenomeno ha raggiunto dimensioni maggiori che in passato. Ed è stato testimonianza incancellabile di una strategia politica basata su un patto con l’attuale regime, patto che ha funzionato grazie al sostegno di tutti i partiti della borghesia brasiliana e di cui la gestione del governo era parte integrante.

Departement of Justice

La operazione ‘Lava Jato’ (autolavaggio) è stata propiziata dal Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti col proposito di smantellare il parziale monopolio della compagnia mista pubblico-privata Petrobras e del ventaglio di imprese che giravano nella sua orbita. Da qui, in primo luogo, nasce la denuncia del ‘petrolao’ (scandalo del petrolio), termine che si riferisce alla tangenti ricevute dai funzionari di alto grado della Petrobras in cambio della concessione di appalti alle grandi imprese di costruzione brasiliane. Facendo leva sullo scalpore suscitato dallo scandalo il Parlamento brasiliano ha finito per votare la fine del monopolio della Petrobras consentendo l’ingresso nel mercato nazionale di imprese straniere che prima per poter lavorare dovevano associarsi al monopolista e operare sotto il suo controllo. Un’operazione di ‘smonopolizzazione’ iniziata prima della destituzione di Dilma Roussef.

Lo schema di corruzione del ‘petrolao’ e del ‘Lava Jato’ era stato coperto attraverso una narrazione che è ‘classica’ del nazionalismo: l’invenzione di ‘campioni nazionali’, protagonisti di una strategia espansionistica della borghesia brasiliana in concorrenza col capitale straniero. La stessa narrazione a cui in Argentina ha fatto appello, tardivamente, il cosiddetto ‘marxista’ Axel Kicillof, proseguendo ciò che era stato fatto a partire dal governo di Néstor Kirchner con Cristóbal López, Lázaro Báez, Electroingeniería e più tardi con l’ingresso del gruppo Eskenazi in Repsol (riferimento alle politiche di riappropriazione nazionale dell’economia argentina sotto i governi della famiglia Kirchner in Argentina NdT). Sotto l’ombrello di quella propaganda in Brasile si cercò di creare una compagnia petrolifera privata nazionale attorno alla Odebrecht e alle altre imprese di costruzioni, grazie a un avventuriero di nome Eike Batista, un tentativo conclusosi in un fallimento. Il finanziamento di questa ‘impresa nazionale’ passò attraverso le casse della Banca per lo Sviluppo (BNDS), che a sua volta traeva le risorse dal sistema previdenziale, una vicenda simile al saccheggio dell’ANSES argentino da parte dei Kirchner e ora del ‘repubblicano’ Macri-Carrió.

Odebrecht e Lula

Lula si trasformò in un agente di commercio della Odebrecht, in particolare nei confronti dei governi bolivariani dell’America Latina, da Cuba e Venezuela fino a El Salvador, Ecuador e Bolivia. In Argentina il gruppo ebbe numerosi appalti, tra cui quello per il sotterramento della ferrovia del Sarmiento, ottenuto grazie all’ ‘amico del cuore’ del presidente Mauricio Macri, ‘Nicky’ Caputo e a De Vido, successivamente finito in carcere. In Perù, pur non essendoci un movimento bolivariano, Odebrecht ottenne l’affidamento di una ricchissima rotta commerciale Atlantico-Pacífico verso la Cina. Un analogo tentativo messo in atto in Bolivia dovette invece affrontare la resistenza indigena. Finché gli azionisti esteri di Petrobras le intentarono una causa davanti a un tribunale di New York, accusandola di aver fatto loro perdere parte dei dividendi, cioè le somme favolose che Petrobras pagava ai costruttori argentini e la tangenti altrettanto favolose che i suoi funzionari si intascavano. Michel Temer, co-regista di questa operazione, vicepresidente di Dilma Roussef e precedentemente collaboratore della presidenza Lula, si trasformò in curatore fallimentare degli affari che prima lui stesso aveva portato avanti col PT e lo fece col sostegno della nuova maggioranza del Parlamento, che del resto è molto simile alla vecchia! Il cambio di rotta della borghesia brasiliana, da un’economia finanziata dallo Stato attraverso Petrobras e BNDS alla svendita di queste ultime è stato determinato dalla caduta verticale del prezzo del petrolio, che portò all’esaurirsi del finanziamento ‘nazionale e popolare’. Proprio come era accaduto con la ‘Argentina kirchnerista’. La borghesia, attraverso un improvviso zig zag, passò dall’altra parte della barricata non solo in Brasile, ma in quasi tutta l’America Latina. La Cina, concorrente commerciale dell’UE, accompagnò tale inversione di rotta, appoggiando la privatizzazione di quelle economie nazionali a vantaggio delle proprie aziende.

I processi penali contro la corruzione non mirano alla ‘trasparenza’, né hanno una finalità ‘etica’, ma rappresentano il velo che nasconde la lotta per il controllo del mercato e dell’economia. Chi a sinistra reclama la condanna di Lula, così come chi vorrebbe l’assoluzione, semplicemente non si rende conto che il processo politico degli ultimi venti anni è fallito irrimediabilmente e che il suo superamento può passare solo attraverso uno scontro di classe su questioni di fondo con l’attuale regime politico e il grande capitale, non attraverso rimedi giudiziari di qualche tipo, che altro non sono che la cortina sinistra di un tentativo di far pagare alle masse il costo insostenibile di un’uscita dalla miseria. Lula negli ultimi tempi aveva tessuto un accordo con partiti simili al PT, alcuni di sinistra altri di destra, basato su una politica di espansione industriale e crescita delle esportazioni, nel vano intento di riguadagnare la fiducia del capitale e di salvarsi dal carcere. Il capitale però, senza dubbio, non può in alcun modo sopportare il peso di esperienze ormai fallite. Il pronunciamento golpista del comandante in capo dell’esercito, il generale Vilas Boas, la sera della riunione della Corte Suprema Federale esprime una sintesi politica che sta guadagnando consensi nelle classi dominanti. Il Brasile si sta incamminando verso una crisi politica importante e assolutamente inevitabile.

Una questione di potere

Il governo guidato da Lula dopo il suo avvio adottò un approccio corruttivo quando cominciò a pagare quote mensili (il ‘mensalao’) ai gruppi parlamentari con cui aveva concluso accordi di governo. Diede vita a una riforma delle pensioni, che ora il presidente Temer vuole portare a termine, per finanziare il capitale coi fondi pensione. Strinse un patto con Citibank e il FMI, che portò alla presidenza della Banca Centrale un banchiere di Boston, oggi Ministro dell’Economia di Temer. ‘Tudo bem’ (Tutto bene) si diceva, mentre i prezzi internazionali del ferro (Vale do Rio Doce), del petrolio (Petrobras) e della soia (aziende agricole e cerealicole) esplodevano. Dunque dall’inizio Lula promosse un governo ‘frontista’, di collaborazione di classe, che dovette lubrificare la propria azione con le tangenti. Lula e il PT dunque son o pienamente responsabili dell’attuale tracollo.

Le istituzioni politiche brasiliane hanno perso qualunque credibilità. Sono in discussione il Governo, il Parlamento e la magistratura. Lula dovrebbe essere giudicato da un tribunale eletto dai lavoratori, non da una corte ispirata dal Dipartimento di Stato americano, né da un tribunale che intanto che condanna Lula protegge una quantità enorme di ladri. Qui ci troviamo di fronte a un problema politico – di potere. In questi termini dovrebbe ragionare una sinistra veramente rivoluzionaria. In Brasile c’è stata un’azione golpista e subito dopo l’intervento militare. L’intervento dell’esercito a Rio de Janeiro per questioni di sicurezza ha stabilito un regime di apartheid in quella città: manca soltanto che si eriga un muro per separare la popolazione nera che abita nelle favelas. La parola d’ordine ‘Via il governo Temer’ dovrebbe essere scandita insieme alla richiesta che vengano destituiti e perseguiti i generali golpisti, in pensione e in attività, e che nasca una milizia popolare per proteggere i lavoratori e la democrazia.


Lotta di classe nell’era dei partiti postideologici

Recenti ricerche sociologiche in Italia e in Francia dimostrano che cresce la percezione di una società divisa in classi e di una crescente ‘proletarizzazione’ del ceto medio, ma anche di un fenomeno di antagonismo tra classi sociali. Mentre la politica teorizza partiti ‘postideologici’ e superamento di destra e sinistra. L’attuale fase potrebbe essere un’occasione per riportare il dibattito politico a ragionamenti più seri.

Ma è proprio vero che destra e sinistra, fascismo e antifascismo sono categorie del passato, che il futuro è dei partiti postideologici, che la classe operaia non esiste più, decimata dalla deindustrializzazione e soppiantata dai ‘cittadini’ e dalla ‘società civile’ e che quindi il vero scontro oggi è quello che si combatte tra populisti ed establishment, demagoghi e moderati?  In una politica che quando manca di argomenti si nasconde spesso dietro l’autorità della scienza, è emblematico notare come, in questo caso, i risultati della ricerca sociologica sulla percezione che i cittadini hanno della propria collocazione sociale, pur contraddicendole, non scalfiscano minimamente il ‘dogma postideologico’.

Già nel 2015 Repubblica pubblicava una ricerca di Ilvo Diamanti, intitolata L’ascensore sociale funziona al contrario: ora il ceto medio si sente classe operaia, in cui l’autore rilevava, dati alla mano, un’inversione di tendenza rispetto alla crescita, iniziata negli anni ’80, del numero di persone che si sentono ‘ceto medio’. Inversione di tendenza che non riguarda solo l’Italia, L’articolo che segue, pubblicato un anno prima della ricerca di Diamanti, è tratto da una ricerca di Dynegal (Dynamiques des Inégalités), finanziata dal Ministero della Cultura francese e svolta in collaborazione con alcune autorevoli istituzioni di ricerca, e ci racconta che in una società moderna, in un paese confinante e con caratteristiche abbastanza simili al nostro, due terzi della popolazione pensa che la società sia divisa in classi, così come cresce il sentimento di appartenenza alla classe operaia o popolare e viceversa diminuisce il numero di coloro che si definisce classe media. La cosa interessante è che i ricercatori francesi hanno posto al loro campione anche una domanda che Diamanti non ha rivolto ai suoi intervistati, cioè se ritengano che la società sia caratterizzata da uno scontro tra le diverse classi sociali che la costituiscono, una domanda a cui due terzi dei francesi hanno risposto sì. E che hanno chiesto agli intervistati anche di esprimere un giudizio sulla società francese, se e come bisognerebbe cambiarla e facendo leva su quali valori. Allo stesso tempo però lo studio evidenzia come questo fenomeno non si sia tradotto in una crescita della sinistra marxista, che pure in Francia ha mantenuto una forza significativa e dunque spiega – anche se nella ricerca non viene detto – la rapida ascesa del Front National di Marine Le Pen, almeno fino all’improvvisa battuta d’arresto subito dopo la sconfitta delle presidenziali. E’ il frutto di un superamento di destra e sinistra o piuttosto di un’incapacità della sinistra francese di diventare un punto di riferimento del conflitto sociale? A giudicare da quanto si vede in queste settimane pare che nessuna organizzazione politica di sinistra (né di destra) svolga un ruolo determinante nel movimento di scioperi in atto contro il Governo e questa potrebbe già essere una prima risposta.

L’attuale fase politica e il dibattito attorno alle consultazioni e alla formazione di un nuovo governo, in cui si prefigurano maggioranze e alleanze di governo a simmetrie variabili e inusitate, anche a seconda di quale sarà la loro evoluzione, potrebbero rappresentare il momento buono per una riflessione un po’ più approfondita su una serie di affermazioni che tutti ormai danno per scontate senza che nessuno si sia mai cimentato con l’onere di argomentarle in modo serio, invece che con chiacchiere da talk show. I dati degli studi che abbiamo citato potrebbero essere un punto di partenza interessante e testimoniano la superficialità del dibattito politico, confermando lo scollamento esistente tra la percezione che hanno della realtà i politici e quella della gente comune. Chi avrà voglia di leggere la traduzione che segue potrà anche riflettere su come i ricercatori francesi pagati dallo Stato, a differenza di Diamanti, che lavora per il gruppo editoriale Repubblica-L’Espresso, abbiano potuto chiamare le cose col loro nome, senza aver paura di evocare un concetto, quello di lotta di classe, che in Italia i media hanno espunto  dal vocabolario del politically correct. Chissà che in questa diversità non siano intravvedibili anche alcune delle ragioni per cui il sindacato francese oggi sta facendo cose che quello italiano, almeno le grandi organizzazioni, non avrebbe il coraggio di fare neanche con una pistola puntata alla tempia.


La crescita del sentimento di appartenenza di classe e degli antagonismi sociali

Thomas Amadieu, Nicolas Framont, Les focus de Dynegal, febbraio 2014

Due francesi su tre pensano che la società sia caratterizzata dalla lotta di classe

Il 67% dei francesi sono ‘del tutto d’accordo ‘ (17,3%) o ‘abbastanza d’accordo’ (50%) con l’affermazione che la società francese è caratterizzata dalla lotta di classe. E’ invece solo il 28,6% a essere ‘piuttosto in disaccordo’ (23,4%) o ‘totalmente in disaccordo’ (5,2%) con questa affermazione.

Nel concordare a larga maggioranza con questa idea i francesi fanno riferimento a una struttura bipolare e conflittuale vicina alla visione marxista? O più in generale a una conflittualità tra differenti gruppi culturali e professionali? Bisogna considerare che fare una diagnosi di quel tipo non significa considerare ciò che si ha modo di verificare un fatto positivo: chi risponde affermativamente alla domanda ad esempio potrebbe deplorare il fatto che vi sia un’esagerata conflittualità nell’ambito delle relazioni sociali in Francia. Tuttavia l’approccio conflittualista sembrerebbe fondarsi a sua volta sul senso di appartenenza di classe e su alcuni valori collegati.

La crescita del sentimento di appartenenza alle classi popolari

Innanzitutto la nostra indagine mostra che il senso di appartenenza di classe è in crescita, mentre il rifiuto delle categorizzazioni sociali in leggero arretramento. Nel 1999 un francese su dieci dichiarava di non sentirsi membro di alcuna classe sociale, percentuale scesa al 7,2% nel 2009 e al 6,7% nel 2013. Inoltre diminuisce progressivamente il sentimento di affiliazione alle classi medie. Nell’arco di tre anni infatti si verifica un calo molto netto del senso di appartenenza alle classi medie, nonostante queste restino maggioritarie: la classe media inferiore nel 2009 rappresentava il 44,4% ma precipita al 39,9% nel 2013; la classe media superiore passa dal 21,2% al 16,9%. C’è un’inversione di rotta molto netta: mentre a partire dagli anni ’80 i francesi si erano sentiti sempre più parte di una grande classe media collocata in posizione centrale questo posizionarsi al centro diminuisce.

Come si definiscono i francesi: svantaggiati, classe media (fascia inferiore, media e superiore), classe agiata, nessuna classe

Il declino relativo delle classi medie va soprattutto a vantaggio della classe popolare o classe operaia: il 30,5% dei francesi sente di appartenere a quest’ultima, contro il 23% del 2009. In totale, se sommiamo questo dato a quello degli svantaggiati o esclusi, si tratta di un aumento di più di otto punti del sentimento di appartenenza alle classi meno agiate. Si tratta di un’inversione di tendenza a fronte del dispiegarsi di dinamiche sociali di rilievo. In questi ultimi venti anni il paradigma dominante dei discorsi dei politici e degli studiosi è stato caratterizzato dall’idea di un forte declino della classe operaia. Alcuni sociologhi agli inizi degli anni 2000 in realtà hanno ridimensionato questa idea, sostenendo che la società francese in realtà è ancora molto divisa, con da una parte una classe popolare maggioritaria e dall’altra una classe ‘superiore’ che rappresenta all’incirca dal 10% al 15% della popolazione (definita così tenendo conto di redditi, patrimoni e ruoli sociali elevati) e in mezzo una classe media di fatto più ridotta di quanto venga dipinta abitualmente. Se dunque assistiamo effettivamente a un declino quantitativo degli operai, gli impiegati sono più numerosi che in passato e il settore terziario non fornisce più garanzie di stabilità strutturale del posto di lavoro né le cospicue retribuzioni di quando era all’inizio della sua espansione.

I lavori condotti finora sulla percezione delle categorie sociali avevano mostrato che questa situazione obiettiva non era accompagnata da una coscienza soggettiva degli individui della loro posizione reale nella società. I membri delle classi popolari manifestavano una crescente tendenza a collocarsi nella classe media. Tale distorsione oggi pare arretrare in direzione di una forte polarizzazione dell’affiliazione di classe. Tanto più che sembra che i francesi confermino una forte coerenza tra il loro posizionarsi nella scala sociale e la loro appartenenza di classe. E dunque dovendo dire a quale quarto della scala sociale appartengano gli individui intervistati nell’inchiesta Dynegal rispondono conformemente al loro sentimento di appartenenza. Ad esempio coloro che dicono di collocarsi nella metà inferiore della scala sociale costituiscono anche la quota più numerosa di chi giudica di essere parte della classe popolare od operaia. Il sentimento di appartenenza di classe è allo stesso modo coerente col livello di reddito, anche se l’appartenenza alle classi medie risulta senza dubbio esagerata ai due estremi del livello di reddito, fenomeno  legato probabilmente alla rilevanza di altri criteri all’origine del sentimento di appartenenza di classe (condizione professionale, patrimonio, livello di istruzione, capitale culturale, ecc.). C’è inoltre un legame tra questa evoluzione dell’autoposizionarsi nella società e il fatto di considerare che la società francese è caratterizzata dalla lotta di classe. Se quest’ultima constatazione infatti è condivisa dalla maggioranza delle persone intervistate, si fa più acuta presso coloro che si collocano più in basso nella scala sociale.

Francesi e lotta di classe. Da sinistra a destra: svantaggiati, classe media (fascia inferiore, media e superiore), classe agiata, nessuna classe e lotta di classe. Dal basso verso l’alto: pienamente d’accordo, abbastanza d’accordo, abbastanza in disaccordo, per niente d’accordo

Più del 70% dei francesi che si annovera tra ‘gli svantaggiati o esclusi’ oppure  nella ‘classe popolare od operaia’ pensa che la società sia caratterizzata dalla lotta di classe. In particolare quasi il 40% degli svantaggiati  condivide pienamente l’approccio classista. Quest’ultimo invece si indebolisce nelle classi medie per risalire leggermente tra i francesi che appartengono alla classe superiore. Tuttavia ci si può chiedere che cosa implichi questa diagnosi di una ‘lotta di classe’ mediante cui la grande maggioranza dei francesi caratterizza la società francese.

Una visione classista associata a dei valori

Alcune delle domande che abbiamo posto permettono di chiarire il contenuto normativo di tale giudizio. In questo modo si può constatare che una visione classista della società si accompagna al sentimento essa sia ingiusta: l’84% dei francesi per cui la società francese è certamente caratterizzata dalla lotta di classe trovano che essa allo stesso tempo sia ingiusta, mentre la ritiene tale solo il 59,8% di coloro che invece non credono che la società sia caratterizzata dalla lotta di classe. Le persone più convinte dell’esistenza della lotta di classe esprimono un senso di ingiustizia molto forte. Insomma se il sentimento di ingiustizia è comunque dominante una visione conflittuale è accompagnata da un sentimento più forte di tale ingiustizia.

Lotta di classe e giustizia sociale. Da sinistra: pienamente d’accordo, abbastanza d’accordo, abbastanza in disaccordo, del tutto in disaccordo. Dal basso: molto ingiusta, abbastanza ingiusta, abbastanza giusta, molto giusta.

Questo più forte senso di ingiustizia sociale è legato anche all’attaccamento di questi francesi al principio di uguaglianza. I più attaccati a tale principio infatti sono anche coloro che pensano che la società francese sia caratterizzata dalla lotta di classe, anche se tra loro anche l’attaccamento al principio di libertà resta elevato.

Lotta di classe e valori. Da sinistra: pienamente d’accordo, abbastanza d’accordo, abbastanza in disaccordo, del tutto in disaccordo. Dal basso: non so, fratellanza, uguaglianza, libertà.

Questo attaccamento più marcato all’uguaglianza come principio ha, la qual cosa non sorprende, si riflette su un diverso atteggiamento degli intervistati rispetto alle disuguaglianze e alla redistribuzione delle ricchezze. Se si domanda ai francesi di posizionarsi su una scala che va da una società non redistributiva e una società egualitarista si può constatare che chi ha una visione conflittualista tende a collocarsi in prossimità del polo egualitarista. Così su una scala da uno a dieci l’opinione media di chi condivide pienamente la visione classista si colloca a 7, quella di chi invece  la condivide in parte a 6,1 e infine a 5,6 per chi invece ancora non la condivide. La descrizione della società in termini di lotta di classe dunque è accompagnata da un desiderio più forte di redistribuzione della ricchezza. Quindi dire che la società francese è caratterizzata dalla lotta di classe è sintomo di un attaccamento a principi specifici: per coloro che condividono maggiormente tale caratterizzazione essa testimonia un forte attaccamento al valore dell’uguaglianza, un’attitudine che porta a pensare che la società di oggi sia ingiusta e che sia necessaria una migliore distribuzione della ricchezza.

Approccio  conflittuale e difficoltà sociali

Tuttavia il sentimento di conflittualità non è dovuto solamente all’identificazione in una classe o a principi di giustizia sociale, ma anche alle condizioni di vita reali. Scontrarsi con le difficoltà economiche porta a stabilire un’esperienza di conflitto molto forte. Così circa il 40% dei francesi a cui capita spesso di faticare per arrivare alla fine del mese condivido pienamente l’affermazione secondo cui la società francese è segnata dalla lotta di classe, contro un misero 10% tra coloro che invece sperimentano solo raramente o mai tali difficoltà.

Si può pensare che sperimentare tali difficoltà economiche faccia maturare la sensazione che la suddivisione delle risorse non sia abbastanza equa o che il livello dei salari sia troppo basso. Forse queste difficoltà economiche personali vengono attribuite al fatto che tale suddivisione avvenga a beneficio delle categorie sociali più forti.

Conclusione

Il tema della conflittualità di classe, che parrebbe ormai superato, in realtà viene descritto come da quasi due terzi dei francesi come un fenomeno reale. Questa diagnosi, condivisa dall’insieme delle categorie sociali, echeggia più forte tra coloro che si collocano nella parte inferiore della scala sociale e che particolarmente si scontrano con le difficoltà della vita quotidiana. Sembra tuttavia che questo fenomeno non possa essere descritto semplicemente come il ritorno a una visione di altri tempi delle classi sociali, visto che non si riflette in modo sensibile in una crescente tendenza ad aderire a partiti che fanno riferimento alla lotta di classe nel senso tradizionale del termine.

I dati sono tratti dall’indagine DYNEGAL, realizzata nel 2013 da ricercatori del GEMASS, del CMH e del PACTE con la collaborazione di TNS SOFRES, e finanziata dall’Agence Nationale de la Recherche, dal Ministero della Cultura e della Comunicazione e dall’Institut National de la Jeunesse et de l’Education Populaire. E’ stato intervistato un campione statistico di 4049 francesi.


GAZA La nuova strategia di Hamas

Le marce palestinesi ai confini della Striscia di Gaza, diventate bersaglio dei cecchini dell’esercito israeliano, hanno riavvicinato al centro della politica mondiale la questione palestinese. Molti analisti hanno notato in queste manifestazioni l’emergere di una nuova strategia di Hamas o più in generale di un movimento palestinese che sembra aver riacquistato una qualche unità tra Hamas e Al Fatah. Catherine Cornet su Internazionale060418 evidenzia l’efficacia di questa scelta, che sembra aver colto di sorpresa il governo israeliano. E benché – come osserva l’HuffPost020418 la maggior parte degli israeliani sembri schierarsi con l’esercito pare tuttavia che il muro si stia incrinando. L’editoriale del 5 aprile, alla vigilia della seconda manifestazione palestinese, pubblicato da Haaretz, giornale progressista moderato, contiene un giudizio molto netto sull’operato delle forze di difesa israeliane. E anche se le conseguenze che vengono tratte sono un topolino (limitare le vittime alla manifestazione del giorno dopo) rispetto alla gravità del giudizio espresso, il fatto che l’editoriale non firmato di un giornale moderato definisca l’atteggiamento del Governo e dell’esercito ‘inumano, immorale e illegale’ potrebbe rappresentare un segnale interessante e anche confermare che la strategia di Hamas non è sprovvista di una sua efficacia. E che il governo israeliano ha commesso un passo falso.

Contenete il fuoco                      

Editoriale di Haaretz, 5 aprile 2018

Domani ancora una volta i dimostranti di Gaza e l’esercito israeliano si fronteggeranno lungo i confini.  Non bisogna permettere che ciò che è accaduto lo scorso venerdì si ripeta domani. Una settimana fa l’esercito ha aperto il fuoco su centinaia di manifestanti disarmati che non stavano mettendo in pericolo la vita di nessuno, uccidendone diciotto e ferendone centinaia.

Alcuni filmati hanno mostrato manifestanti colpiti alle spalle, uno di questi è stato colpito dopo aver alzato le mani mentre a un altro hanno sparato mentre si stava sollevando dopo essersi inginocchiato per pregare. Quasi tutto il sistema politico ha difeso l’esercito o addirittura lo ha addirittura incoraggiato. Il Ministro della Difesa Avigdor Lieberman in settimana ha ripetuto ancora una volta che chiunque si avvicini al confine mette la propria vita in pericolo. Questo atteggiamento è inumano,  immorale e illegale.

L’esercito israeliano ha il compito di difendere la sovranità di Israele e di garantire la sicurezza dei suoi cittadini. Non ha né l’autorità né  il permesso di sparare a manifestanti inermi che non stanno cercando di attraversare il confine. Perfino l’affiliazione di alcuni manifestanti ad Hamas o ad altre organizzazioni non dà all’esercito il diritto di ucciderli, almeno finché essi non siano armati o non rappresentino comunque una minaccia.

L’esercito è dotato di armi non letali a sufficienza per impedire ai manifestanti di attraversare il confine senza ucciderli o ferirli sparando loro addosso. Venerdì scorso per qualche ragione l’esercito invece di utilizzare quelle armi è ricorso al tiro dei cecchini scatenando la guerra contro i manifestanti.

Ora ci si aspetta che l’esercito tragga una lezione dal fallimento di venerdì – 18 manifestanti uccisi e centinaia feriti infatti sono un fallimento  – e adotti un approccio differente. La maggior parte di quelli che stanno dall’altra parte del confine non sono né soldati né terroristi. Sono civili che hanno deciso di dare vita a una lotta sostanzialmente non violenta il nome della propria libertà. E’ loro diritto. L’esercito deve compiere il proprio dovere,  ma sopprimere questa protesta non fa parte dei suoi compiti.

Il risultato del test di domani  per l’esercito si misurerà nel numero di vittime che dovrà essere il più basso possibile. Perfino sotto un governo nazionalista, di destra, che non consideri i palestinesi come esseri umani come noi,  l’esercito deve agire con umanità e rispettare le leggi internazionali.  Altre uccisioni di massa domani non solo sarebbero immorali, ma potrebbero anche innescare un violento, sanguinoso scontro a Gaza e nel resto dei territori occupati. Tale conflitto non servirebbe a nessuno.  L’esercito deve fare di tutto per evitarlo.

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