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POLITICA In Germania la SPD dà il via libera per la seconda volta a una Grande Coalizione con la CDU-CSU di Angela Merkel, ma stavolta ne esce spaccato in due. Tutti appaiono soddisfatti, ma in realtà aleggia la preoccupazione per una situazione politica instabile che è frutto a sua volta di una difficoltà materiale. La locomotiva economica tedesca denuncia i sintomi di problemi che non possono essere più nascosti ancora a lungo come polvere sotto il tappeto. E richiederebbe un bilancio a tutti coloro  che, anche in Italia, in questi anni ce l’hanno presentata come un modello virtuoso. ITALIA Siamo un paese a rischio di fascismo, al punto da aver dovuto inasprire la Legge Scelba, emanata dopo soli 7 anni dalla fine di Mussolini? Oppure è una delle tante boutades a cui ormai l’attuale politica, soprattutto in campagna elettorale, ci ha abituato? DIRITTI Anche se in Italia in pochi se ne sono accorti, le donne polacche sono scese ancora in piazza contro il tentativo del Parlamento di rendere ancora più restrittiva la normativa sull’interruzione di gravidanza. Dietro – come cerchiamo di spiegare – non c’è solo una questione etica, ma un business di dimensioni ragguardevoli. CINEMA/CULTURA A 120 anni dalla nascita di Eisenstein e a 70 dallo scontro tra il regista e la burocrazia staliniana nelle sale italiane un film inglese ricorda con intelligenza e ironia tipicamente british la morte di Stalin e la lotta per la successione alla guida dell’URSS. 


GERMANIA Coalizione grande sì, ma incerta

IL FATTO

Domenica il congresso straordinario della SPD, convocato per dire sì o no all’inizio delle trattative con l’Unione (CDU-CSU) di Angela Merkel in vista di una nuova Grosse Koalition, ha approvato le larghe intese con 279 voti contrari su 642, il 44% (Sole24Ore220118). Per la SPD, costretta a un voltafaccia dopo il peggior risultato elettorale della sua storia e dopo aver giurato che non ci sarebbe stata una nuova coalizione con la Merkel, è uno schiaffo. Il partito è spaccato a metà, con i giovani socialisti che annunciano che la prosecuzione della mobilitazione interna contro l’alleanza fino all’ultimo. Ma la preoccupazione investe l’intero establishment tedesco. Anche nell’Unione (in particolare nella CSU) i dubbi sono forti. Si preannuncia un periodo di instabilità politica. Il miracolo tedesco e la Germania locomotiva d’Europa sembrano un mito incrinatosi a contatto con la realtà e con le avvisaglie di un’economia che accusa difficoltà non banali.

IL CONTESTO

Qui da noi l’idea dell’inarrestabile avanzata tedesca è stata adoperata per dare maggiore legittimità al rigore finanziario e all’immagine di un’Italia che deve fare i compiti per non essere bocciata. Ma in Germania i poveri non sono mai stati tanti dai tempi della riunificazione (Euronews260717, IlGiornale030317). Romaric Godin, nell’articolo pubblicato da Mediapart il 4 gennaio e che abbiamo tradotto, spiega come i governi tedeschi abbiano combattuto la disoccupazione redistribuendo il lavoro, ma allo stesso tempo tagliando le retribuzioni e creando 3 milioni di lavoratori poveri (circa 1 su 10) e strutturalmente precari. Questo forse spiega anche come, a fronte di una crescita dell’occupazione, le iscrizioni al sindacato non solo non siano aumentate, ma nel 2017 – come riporta la Junge Welt – siano scese sotto la soglia simbolica dei 6 milioni, in un paese che è storicamente la roccaforte del sindacato e della ‘aristocrazia operaia’ in Europa. D’altra parte la bozza di programma di governo (sintetizzata qui sotto), su cui SPD e CDU-CSU cominceranno a trattare nei prossimi giorni, che pure vista dall’Italia a qualcuno potrebbe sembrare un sogno, da una parte sembra rispondere a un disagio serpeggiante tra chi comincia a sentire i morsi della crisi, dall’altra ribadisce la filosofia di fondo delle politiche di questi anni, in particolare con la proposta di ampliare l’utilizzo dei minijobs.

La bozza di accordo per punti

Fonte: ZDF

LAVORO: Estensione dei minijobs. Riduzione delle trattenute per l’assicurazione contro la disoccupazione.

CASA: costruzione di un milione e mezzo di abitazioni, attraverso l’edilizia pubblica o agevolazioni fiscali e di altro genere all’iniziativa privata.

FISCO: progressiva abolizione dell’imposta di solidarietà per i costi dell’unificazione. Riduzione dei contributi previdenziali per i redditi più bassi. I contributi previdenziali e sociali non dovranno superare il 40%.

SANITA’: parificazione dei contributi per l’assicurazione sanitaria per lavoratori e imprese (oggi i lavoratori pagano in media l’8,4% del loro reddito, le imprese il 7,3% N.d.T.). Assunzioni e aumenti salariali per i lavoratori del settore.

PENSIONI: fino al 2025 lo Stato garantirà un importo pari ad almeno il 48% dello stipendio e i contributi non aumenteranno.

WELFARE: aumento di 25 euro del kindergeld in due tranches: 10 euro nel 2019, 15 dal 2021 (oggi l’assegna è circa 200 euro al mese fino ai 18 anni).

IMMIGRAZIONE: confermato il principio del diritto di asilo, ma non ci saranno più di 220mila ingressi l’anno e 1000 ricongiungimenti familiari al mese (che sostituiranno progressivamente l’accoglienza volontaria di profughi provenienti da Italia e Grecia). La situazione del 2015 ‘non dovrà ripetersi’. 8 miliardi a disposizione di länder e comuni per le spese per l’accoglienza fino al 2021.


Perché la disoccupazione in Germania è ai minimi

Romaric Godin, Mediapart, 4 gennaio 2018

Sembra che nulla debba fermare il ‘miracolo tedesco’ dell’occupazione. Le cifre pubblicate il 3 gennaio dall’Agenzia Federale per l’Impiego (BA) farebbero sognare tutti gli altri paesi… A dicembre il numero di persone in cerca di occupazione a livello nazionale è sceso di 183.312 unità, cioè del 7%, attestandosi al 5,3% della popolazione attiva (5,5% il dato destagionalizzato). Sono cifre mai viste dopo la riunificazione: bisogna tornare alla Germania Ovest del 1981 per ritrovare analoghi livelli di disoccupazione. Secondo il metodo di calcolo più restrittivo dell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) il tasso di disoccupazione a novembre è stato del 3,6% (lo 0,2% in meno rispetto a novembre 2016).

Sono ben lontani i tempi – era il 2015 – in cui la Germania dichiarava un tasso di disoccupazione superiore al 12%. E il balzo è ancor più sorprendente perché contestualmente assistiamo a una crescita significativa della popolazione attiva che, a novembre, secondo l’Agenzia Federale di Statistica Destatis, in un anno è aumentata di 617mila persone, l’1,4%, arrivando a 44,744 milioni di persone. Tutti i numeri dunque sembrano promettere bene: una popolazione attiva in crescita, che trova lavoro, prevalentemente subordinato (il numero dei dipendenti a ottobre è cresciuto del 2,3% su base annua).

Tasso di disoccupazione tedesco dopo il 1970 © FRED, Fed de Saint-Louis

Come spiegare questa dinamica? L’accelerazione della crescita economica evidentemente gioca un ruolo importante. Secondo la Bundesbank per il 2017 l’economia tedesca dovrebbe toccare il +2,3% (la prima stima verrà divulgata l’11 gennaio), contro il +1,9% del 2016 e il +1,7% del 2015.  Questa crescita produce occupazione. Nel 2017 sono stati creati 722mila posti di lavoro dipendente, il 2,3% in più rispetto al 2016. E secondo i dati a disposizione divulgati a ottobre il 14,8% dei posti di lavoro creati nell’ultimo anno sono nel settore immobiliare e il 6% nelle costruzioni. I tassi di interesse reale estremamente bassi infatti hanno cambiato l’atteggiamento delle famiglie tedesche verso l’acquisto di immobili. A un certo punto nelle grandi città i prezzi delle case hanno iniziato a crescere rapidamente e i cantieri si sono moltiplicati. E naturalmente la crescita dell’occupazione sostiene questa propensione all’acquisto che, tuttavia, sempre secondo la Bundesbank, in certe condizioni, potrebbe assumere le sembianze minacciose di una bolla immobiliare.  Si consideri che un quinto dei nuovi posti di lavoro viene da qui.

Allo stesso tempo l’industria tedesca, sostenuta dalla domanda estera, dalla ripresa degli investimenti, ma anche da un debole aumento della produttività, ha continuato a creare impieghi. A ottobre il 9,9% dei posti creati nell’ultimo anno erano nel settore della manifattura, ai quali senza dubbio vanno aggiunti quelli nella logistica, settore necessario all’esportazione che rappresenta uno dei comparti più dinamici, visto che gli vanno attribuiti l’8,8% della nuova occupazione. Infine nella creazione di lavoro gioca un ruolo importante anche l’invecchiamento della popolazione , con 130mila posti creati nel settore della sanità e dell’assistenza, ossia il 17,5% dell’incremento annuale registrato a ottobre.

Tuttavia il miracolo tedesco non ha solo ragioni congiunturali. Del resto possiamo osservare che l’offerta di lavoro nel 2017 è rallentata, malgrado l’accelerazione della crescita. Se il tasso di disoccupazione è tornato ai livelli del 1981, la struttura del mercato del lavoro tedesco non è più quella di 36 anni fa. La vera ragione di una disoccupazione così bassa è soprattutto che la Germania ha redistribuito il lavoro. A differenza della Francia questa redistribuzione non è avvenuta per legge ma mediante il mercato o, se vogliamo, la redistribuzione delle retribuzioni. Ciò spiega anche come il ‘pieno impiego’ tedesco non stia innescando – come ci si aspetterebbe – una vera spirale di aumenti dei salari e dell’inflazione. E come di fatto la crescita dei consumi rimanga largamente modesta in rapporto all’ampiezza dello sviluppo del mercato del lavoro. E’ per questa ragione che, tenuto conto di questi livelli storici di pieno impiego, la crescita tedesca in realtà si rivela abbastanza moderata.

Crescita del PIL tedesco © FRED, Fed de Saint-Louis

Un recente studio dell’Institut de l’économie du travail (IZA), diretto da Michael Burda e Stefanie Seele, ci ricorda come il miracolo tedesco dell’occupazione posi su queste basi. Il numero di ore lavorate in Germania non cresce dal 1994 e il suo andamento corre parallelo a quello della Francia. Nel 2015 è persino diminuito dello 0,8% rispetto al 1993. In altri termini i tedeschi da 25 anni non vedono aumentare il proprio orario di lavoro. Non è dunque perché hanno lavorato di più che i tedeschi hanno creato più occupazione dei francesi. E’ piuttosto perché hanno distribuito maggiormente le ore di lavoro disponibili. La produttività oraria aldilà del Reno è praticamente invariata dal 2010, cioè proprio da quando il tasso di disoccupazione ha iniziato a scendere vigorosamente.

Questa distribuzione si è tradotta in un’esplosione del lavoro part-time che non accenna a smettere, anche se, con l’accelerazione della crescita, si rileva una leggera ripresa delle assunzioni a tempo pieno. A ottobre i posti a tempo parziale erano ancora il 42% sul totale della nuova occupazione creato in un anno ed è solo dallo scorso luglio che sono scesi sotto il 50%. Del resto la loro crescita è stata due volte più importante di quella del tempo pieno (3,6% contro  l’1,8%). Tanto che in complesso i lavoratori a tempo parziale rappresentano il 27,5% dei dipendenti, ovvero più di 9 milioni di persone. In tre anni questa quota è aumentata del 14,5%.

Ore annue lavorate in Francia (grigio) e Germania (azzurro) © IZA

A questa crescita del part-time si è sommata la moderazione salariale per chi sta nei settori più esposti della curva retributiva. D’altra parte i due fenomeni sono parzialmente collegati, dato che i dipendenti a tempo parziale hanno meno potere nel determinare la propria retribuzione.  Secondo Burda e Seele, il quartile più basso dei salari ha visto scendere il proprio livello del 15% tra il 2002 e il 2015. E’ leggermente risalito in seguito, con l’introduzione del salario minimo orario, ma complessivamente in questo modo il costo del lavoro cresce meno rapidamente della produttività, concedendo un vantaggio competitivo considerevole alla Germania, ma rendendo allo stesso tempo più profonde le diseguaglianze.

In azzurro la produttività, in marrone la paga oraria nominale © IZA

Il pieno impego tedesco cela dunque numerosi fenomeni in controtendenza, che sembrano caduti nel dimenticatoio. E così nel 2017 4,365 milioni di membri della popolazione attiva, l’8%, ha ricevuto un sussidio di disoccupazione o di disoccupazione di lunga durata (chiamati Hartz IV) che si riceve anche in caso di ripresa parziale del lavoro. E’ un dato in crescita dell’1,2% rispetto al 2016. Ugualmente potremmo mettere l’accento sul livello di sotto-occupazione, dicitura che, nella contabilità nazionale tedesca, mette insieme i lavoratori in malattia e quelli che partecipano a programmi di reinserimento lavorativo. Il loro numero è certamente sceso negli ultimi anni, ma rappresentano ancora il 7,8% della popolazione attiva e la diminuzione di questo parametro è più ridotta di quella della disoccupazione (-1,7% contro un -5,9%), il che significa che una parte non trascurabile della popolazione attiva si trova ancora in questa categoria piuttosto che rientrare in quella di chi cerca lavoro. Infine, ancora Destatis aveva sottolineato due anni fa che quasi tre milioni di attivi, all’epoca il 40% dei dipendenti a tempo parziale, volevano lavorare di più.  Tutto ciò tende a confermare che la disoccupazione In Germania è un fenomeno molto più importante di quanto non lascino pensare i dati dell’OIL e persino quelli della Bundesagentur für Arbeit. La BCE ha stimato che in Europa la ‘disoccupazione occulta’, in particolare tramite il part-time occulto, sia in media il doppio del tasso ufficiale. In Germania forse anche di più.

Il prezzo da pagare non può essere taciuto: il ‘miracolo’ dell’occupazione è accompagnato da tensioni sociali su cui hanno investito e lucrato l’estrema destra di Alternative für Deutschland  o i liberal-populisti dell’FPD. E l’attuale paralisi politica del paese è in gran parte legata a questa situazione. Allo stesso modo la debolezza con cui il pieno impiego si traduce sul piano dei consumi, col fenomeno dei ‘risparmiatori per prudenza’, che si spiega con la fragilità, per molti, della condizione lavorativa, ha indebolito la crescita e l’effetto di trascinamento della Germania rispetto al resto della zona euro. Infine la deflazione salariale tedesca degli anni 2000 è stata possibile solo grazie al suo isolamento. Tutte queste ragioni dovrebbero suscitare molta prudenza in chi ci invita a ‘clonare’ il modello tedesco.


Sindacato: sempre meno iscritti

Non sono più oltre 6 milioni gli iscritti alla DGB. Ma la confederazione mantiene la stessa linea politica: quella dei vertici SPD

Johannes Supe, Junge Welt, 20 gennaio 2018

Le federazioni organizzate nel Deutscher Gewerkschaftsbund (DGB) perdono ancora iscritti. Lo ha comunicato il presidente della DGB venerdì, durante la conferenza stampa di inizio anno nella sede centrale della Confederazione a Berlino. Dunque erano 5 milioni e 995mila gli iscritti alle 8 federazioni della DGB, circa 52mila meno dell’anno precedente. Il secondo tema significativo della conferenza stampa è stata la raccomandazione rivolta dal sindacato alla SPD di dare il via alla trattativa con l’Unione per la formazione di una coalizione di governo.

‘Ovviamente mi sarei augurato un numero di tesserati che iniziasse col 6’ – ha detto Hoffman. E tuttavia la DGB rimane la più forte organizzazione per numero di iscritti in Germania e ogni giorno sono 850 le persone che vengono ricevute negli uffici delle federazioni aderenti. ‘Non ci lasciamo irritare da questo risultato, ma allo stesso tempo non ne siamo soddisfatti’.

Tra le cause di questo passo indietro c’è anche l’età elevata degli iscritti: con la fine del lavoro e l’inizio della pensione molti finiscono per abbandonare il sindacato. E’ vero che le federazioni della DGB sono molto efficaci nel reclutare adolescenti inseriti in programmi di apprendistato e tuttavia circa il 50% degli adolescenti, una volta terminata la scuola superiore, si iscrive all’università. Mantenere relazioni con loro per il sindacato si rivela spesso molto difficile.

A ciò si aggiunge un terzo problema: i processi di esternalizzazione avvenuti negli ultimi decenni. ‘Le imprese – spiega Hoffman – sono sempre più disarticolate. Ad esempio alcune cliniche hanno spostato i propri addetti alle pulizie in ditte di supporto logistico, dove il rapporto di lavoro non è regolato da alcun contratto. Così ovviamente, mentre i vecchi contratti rimangono in vigore, il livello di copertura garantito dalla contrattazione in Germania viene intaccato,  e ciò inevitabilmente ha un effetto sul numero degli iscritti al sindacato. Per contrastare questo fenomeno la politica dovrebbe agevolare forme di contrattazione universali (che regolino cioè tutte le aziende dello stesso settore). Le imprese avrebbero dovuto chiedere allo Stato un intervento di questo tipo insieme al sindacato, ma finora la Bundesvereinigung der Deutschen Arbeitgeberverbände (BDA,la confindustria tedesca N.d.T.) – ‘ha tenuto i piedi saldamente pigiati sul pedale del freno’ – commenta Hoffman.

Tuttavia la DGB teme che queste istanze non troveranno attenzione neanche da parte del prossimo governo. Dice Hoffman, con uno sguardo alle trattative preliminari tra CDU-CSU e SPD in vista di una Grosse Koalition: ‘Per quanto riguarda la contrattazione nazionale nelle bozze di programma di governo ci sono ancora evidenti buchi da recuperare’. Compreso il punto per cui che – secondo l’Unione – la tipologia dei Minijobs, posti di lavoro con una retribuzione tra i 450 e gli 850 euro mensili, dovrebbe essere estesa – osserva critico il sindacalista. Così come – riguardo la necessità di investimenti in scuola e infrastrutture – siamo fermi al fatto che non ci saranno nuovi fondi, ‘non proprio la soluzione migliore’.

Tuttavia il presidente della DGB è chiaro su un punto: la Confederazione è per una nuova coalizione tra Unione e SPD: ‘Che nel congresso si arrivi a un giudizio complessivamente positivo sulla bozza di accordo programmatico’ – sono le parole di Hoffman, per cui il documento di 28 pagine licenziato da CDU, CSU e SPD come base di un possibile accordo contiene più aspetti positivi di quello della coalizione Giamaica (CDU-CSU, verdi e liberali N.d.T.), ad esempio una stabilizzazione del livello delle pensioni, così come il fatto che si allontanino alcuni provvedimenti di svolta discussi da quei partiti, come lo smantellamento della Arbeitszeitgesetz (la legge fondamentale sul lavoro N.d.T.). Hoffman, che è un membro della socialdemocrazia, dice esplicitamente che si augura che i delegati dell’SPD, chiamati a un congresso straordinario domenica prossima, approvino l’inizio delle trattative con l’Unione sul programma di governo.

Solo il 9 ottobre scorso Hoffman si era espresso con chiarezza in tutt’altro modo. Durante il congresso della IG Bauen, Agrar, Umwelt (federazione dei lavoratori edili e dell’ambiente) infatti ai delegati aveva detto: ‘Le larghe intese vanno respinte’. Quasi le stesse parole con cui i vertici della SPD avevano annunciato, proprio in quei giorni, di aver scelto l’opposizione. 


ITALIA Fascismo alle porte? Intervista a Piero Acquilino

Le contraddizioni e i problemi sociali acuiti dalla crisi economica mondiale hanno creato uno spazio politico per organizzazioni di estrema destra e fasciste, in Europa e anche in Italia. Lo osservano concordi tutti i commentatori. Qualcuno aggiunge: forse anche perché quello spazio è stato lasciato vuoto dalla crisi di rappresentanza politica dei lavoratori e del ceto medio. A dicembre un sondaggio Demos per conto di Repubblica concludeva che per il 46% degli italiani il fascismo è (molto o abbastanza) diffuso nel paese (Repubblica081217).  Ci sono effettivamente le condizioni per evocare il pericolo fascismo in un paese come l’Italia? O si tratta di uno dei tanti prodotti di un marketing elettorale, in cui si gareggia a chi la spara più grossa? Ne parliamo con Piero Acquilino, oggi dirigente della FIOM, militante dell’estrema sinistra già all’epoca in cui il neofascismo italiano metteva le bombe sui treni, nelle piazze e nelle stazioni.

Da mesi ormai politica e informazione lanciano l’allarme fascismo. Quanto c’è di vero e quanto di propaganda elettorale?

Guarda, a me sembra che, perso qualsiasi punto di riferimento politico, sociale e storico, il variegato e disastrato mondo della sinistra trova nel solo antifascismo la base di un’identità comune, nonché la possibilità di pescare consensi elettorali. Così man mano che si avvicinano le elezioni si scopre l’acqua calda, cioè che esistono continuità e collegamenti politici tra le formazioni neofasciste e settori del centrodestra (i voti, come i soldi, non hanno odore), e che quindi giunte composte da Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia hanno difficoltà a prendere le distanze dalle iniziative di organizzazioni come CasaPound o Forza Nuova, che magari hanno contribuito alla loro elezione. Perciò s’insorge, al canto di ‘Bella ciao’, contro gli stessi con cui ieri si sono votate leggi come la riforma Fornero e gli altri provvedimenti del governo Monti e con cui si sarà disposti a votare insieme domani, riponendo nuovamente in soffitta ‘Bella ciao’, se le circostanze lo richiederanno.

A Genova l’anno scorso il PD ha fatto campagna elettorale allo stesso modo, ma non gli è andata bene. La lezione non è bastata?

Evidentemente no: ‘A quelli che vuol rovinare, Giove toglie prima la ragione’ dicevano gli antichi. Dichiararsi di sinistra e antifascisti per poi sostenere, a livello nazionale e locale, misure che aiutano i padroni e penalizzano i lavoratori (privatizzazioni delle aziende pubbliche, precarizzazione del lavoro, cancellazione dei diritti…) non fa altro che aprire spazi – elettorali, ma soprattutto sociali – alle destre e non bastano certo i tardivi appelli ai valori della Costituzione e della Resistenza a risalire la china.

Hai toccato un punto delicato. Questa lettura tutta elettoralistica della politica non rischia di deviare l’attenzione dal vero pericolo, cioè la possibilità che il peggioramento delle condizioni di vita favorisca una crescita sociale più che elettorale dell’estrema destra?

Certo. Se c’è una legge confermata dall’esperienza è quella che in politica il vuoto si riempie, sempre. Anche se la crisi del 2008 fosse superata dalla debole ripresa in atto, le condizioni sociali in Italia e in tutto l’Occidente sono destinate a peggiorare perché dipendono dal nuovo assetto dei mercati. I profitti potranno anche aumentare, ma non i salari o la copertura del welfare e solo una ripresa delle lotte su scala internazionale potrà invertire la tendenza. In questa situazione il malessere di larghi strati della popolazione, soprattutto giovanile, è destinato a crescere e, in mancanza di alternative credibili, può rivolgersi, almeno in parte, a una destra che spesso è in grado di fornire risposte false ma semplici, che parlano alla ‘pancia’ della popolazione, come le sparate demagogiche contro gli immigrati. Parlare alla ‘testa’ è senz’altro più difficile, ma un lavoratore organizzato e in grado di combattere per i propri diritti e il proprio salario non è permeabile alle paure diffuse dalla destra tanto quanto chi si sente socialmente emarginato.  Inoltre gli interventi sulle istituzioni, in nome dell’antifascismo, per negare gli spazi pubblici all’estrema destra attraverso leggi o delibere degli enti locali sono – a mio avviso – controproducenti. La lotta contro i fascisti è prima di tutto una lotta politica e sociale che va condotta contendendo loro lo spazio nei quartieri e sui luoghi di lavoro. Leggi e delibere, peraltro facilmente aggirabili, servono solo a circondarli di un’aura di ‘perseguitati dalle istituzioni’ funzionale alla loro propaganda. Ricorrere alle istituzioni dello Stato per limitare per legge l’espressione politica, sia pure di un acerrimo nemico, crea un pericoloso precedente utilizzabile in futuro, in una situazione di eventuale ripresa del conflitto sociale, per mettere al bando chiunque, anche da sinistra, metta in discussione il modo in cui è strutturata la nostra società  e c’è da scommettere che in questo caso leggi e delibere sarebbero ancor più severe.

Il paradosso è che in campagna elettorale si scopre che il fascismo è dietro l’angolo, ma se nel quartiere nasce il comitato contro i profughi e arriva CasaPound, lì il PD e i partiti del centrosinistra magari tacciono per paura di perdere voti.  

A Genova abbiamo avuto un esempio da manuale, infatti. A Multedo, un quartiere operaio e piccolo-borghese del Ponente, l’insediamento, da parte della Curia, di un centro di accoglienza per minori immigrati in un ex asilo infantile ha scatenato una rivolta popolare. Tra gli organizzatori c’erano alcuni elementi conosciuti della Lega e a un certo punto c’è stato il tentativo d’infiltrazione di CasaPound, ma i partecipanti – alcune centinaia – erano abitanti locali non politicizzati, tra i quali abbiamo trovato anche alcuni iscritti alla CGIL. Il movimento si è sgonfiato grazie all’intervento deciso della FIOM, di settori cattolici e di militanti di sinistra e dei centri sociali, ma gli assessori locali della Circoscrizione (maggioranza di centro-sinistra) non si sono visti. Dopo un paio di settimane di tensione nel quartiere si è costituito un comitato di sostegno agli immigrati e il vecchio comitato si è praticamente sciolto (alcuni suoi componenti hanno persino incontrato i giovani profughi). Inoltre, a livello cittadino è nata l’associazione Genova Solidale, promossa dall’ANPI, dalla CGIL e dal centro di documentazione Logos, a cui aderiscono decine di associazioni e strutture e che sta svolgendo un lavoro di sensibilizzazione, a partire dalle scuole, sul tema dell’immigrazione e dell’accoglienza. Anche sul piano cittadino il contributo del centrosinistra è stato praticamente nullo: il tema, evidentemente, non porta voti.

C’è una questione più generale: si parla di fascismo non come un fenomeno storico, che potrebbe ripresentarsi, con le dovute differenze, in determinate condizioni, ma piuttosto come una categoria morale. 

Non credo che oggi in Italia ci siano le condizioni per un movimento fascista di massa: il capitalismo gioca questa carta quando c’è da sconfiggere un forte movimento operaio attraverso la mobilitazione di massa extralegale della piccola e media borghesia. Ciò non vuol dire che movimenti ideologicamente fascisti non possano avere presa in alcuni settori sociali e conoscere un preoccupante sviluppo. È il caso soprattutto di CasaPound, che è riuscita a costruire un progetto politico che può attecchire in alcuni settori studenteschi, molto lontano, almeno in superficie, dall’armamentario nostalgico tradizionale del neofascismo italiano. Forza Nuova invece, pur utilizzando in modo spregiudicato le provocazioni mediatiche (la ‘marcia su Roma’, ecc.), con il suo clerico-fascismo tradizionalista sembra avere un bacino d’espansione potenziale molto più limitato. Non bisogna dimenticare che a fianco di queste organizzazioni nazionali ci sono decine di formazioni locali legate a specifiche subculture (Veneto Skinheads), a tifoserie calcistiche o a identità locali (es. a Genova ‘La Superba’), che esasperano elementi politici della Lega. Quest’ultima dal canto suo ha significativamente spostato il suo asse politico dall’autonomismo antimeridionale a un nazionalismo ‘legge&ordine’ tipico delle destre tradizionali, con in più una robusta vena di razzismo.

L’aspetto più preoccupante però non credo sia politico ma sociale. L’Italia è un paese con una sterminata piccola borghesia colpita da una crisi che ha accelerato un preesistente processo di concentrazione e ristrutturazione: sono sotto gli occhi di tutti i negozi e le attività artigiane che chiudono o le categorie come i tassisti che perdono il loro ruolo tradizionale. È anche un paese vecchio, in cui larga parte della popolazione vive della propria pensione, che una sinistra demente ha descritto come titolare d un intollerabile privilegio e che quindi vive la propria condizione con un senso d’incertezza verso il futuro. A questo si aggiunge un mondo del lavoro dipendente frantumato nel suo complesso da decenni di ristrutturazione e che ha un settore giovanile con salari e condizioni di lavoro quasi asiatiche, basti pensare che il salario minimo garantito per un giovane lavoratore italiano è ancora un miraggio, mentre, per il suo omologo francese, è legge dal 1950.

L’altra faccia della medaglia è quella di un paese ancora relativamente ricco, nel quale i consumi sono diminuiti ma non crollati, con ampi settori che, nonostante le minacce governative, prosperano al riparo da ogni imposizione fiscale e con un capitale in risparmi e immobili delle generazioni precedenti che, grazie anche alla contrazione demografica, è il vero ammortizzatore sociale per le giovani generazioni. Ciò che accomuna questo variegato mondo è la certezza che domani la propria condizione sarà peggiore di quella di oggi, come quest’ultima è stata peggiore di quella di ieri. È una condizione sufficiente per lo sviluppo di un movimento fascista? Credo proprio di no. È però il brodo di coltura ideale per lo sviluppo dell’ideologia di massa della paura e del rancore che condiziona l’attuale dibattito politico pre-elettorale.

Su questo tema segnaliamo anche le opinioni di Aldo Giannuli e Giorgio Galli


POLONIA Gli antiabortisti ci riprovano. Donne in piazza

Fine settimana di manifestazioni in Polonia, nonostante il freddo pungente, per protestare contro il voto parlamentare che lo scorso 10 gennaio non solo ha affossato una proposta di legge, Ratujmy Kobiety (Salviamo le donne), che ampliava la possibilità di ricorrere all’aborto (e alla pillola del giorno dopo anche senza prescrizione medica), ma ha messo in cantiere un provvedimento che dovrebbe cancellare la possibilità di abortire in caso di malformazione del feto (uno dei tre casi in cui la legge polacca consente l’interruzione di gravidanza, gli altri due sono quando il parto mette in pericolo la vita della madre e quando la gravidanza è frutto di violenza). Le manifestazioni organizzate in decine di città con lo slogan Koniec Komprimisów!(Basta compromessi!) da una coalizione di gruppi femministi, partiti e associazioni è nata dopo il voltafaccia di circa 40 parlamentari dei partiti di centro, che, dopo essersi impegnati a sostenere l’estensione del diritto di aborto, raccogliendo un appello firmato da oltre 80 organizzazioni che avevano raccolto 500mila firme a sostegno della legge, in aula si sono astenuti (tre hanno addirittura votato contro).

Dal suo ritorno al governo nel 2015 il PiS (Diritto e Giustizia), espressione della destra clericale, ha fatto dell’abolizione dell’aborto uno dei suoi cavalli di battaglia. Nel 2016 aveva dovuto fare un passo indietro a seguito di un’eccezionale ondata di manifestazioni, ma ora sembra intenzionato a tornare alla carica. Riconosciuto dalla legge nel 1956, il diritto all’interruzione di gravidanza ha subito un primo tentativo di abolizione già nel 1989, immediatamente dopo la caduta del Muro, respinto però, anche allora, dalle manifestazioni di massa. Nel 1991 il primate della Chiesa Cattolica Glemp dichiarava che ‘la separazione tra Chiesa e Stato è di ispirazione comunista’ e nello stesso anno lo Stato cancellava i fondi per calmierare il prezzo della pillola anticoncezionale, che triplicava. L’attuale legge venne promulgata nel 1993, anche per diretto intervento di Papa Wojtyla, nonostante la contrarietà del 60% dei polacchi. A novembre il Guardian spiegava l’importanza di questo tema in Polonia scrivendo che ‘l’aborto si trova all’incrocio dei due maggiori trend emersi nella società polacca dopo la caduta del comunismo nel 1989. Il primo è il conservatorismo sociale, cresciuto col rafforzarsi della Chiesa cattolica. Il secondo è l’entusiastico abbraccio col liberalismo in campo economico avvenuto alla fine del 1989, quando la Polonia è stata uno dei rari paesi a sottomettersi volontariamente alla ‘terapia schock’ del FMI. La spinta della Chiesa per abolire l’aborto si è combinata col desiderio dei neoliberali di eliminare l’intervento pubblico in economia. Così l’aborto ha smesso di essere un intervento medico per diventare un tema etico. Ha smesso di essere un diritto ed è diventato una merce’.

Fino al 1989 in Polonia venivano praticati 55mila aborti l’anno, nel 97% dei casi per ragioni economiche. Dall’entrata in vigore della legge i dati ufficiali parlano di non più di 1000 interventi, ma secondo Federa (Federation for Woman and family Planning) sono in realtà 150mila. Un aborto clandestino costa in media attorno ai mille euro, l’equivalente di uno stipendio medio. Secondo alcune stime questa situazione per un medico che pratica l’aborto clandestinamente genera introiti per 95mila dollari l’anno. Secondo un rapporto dell’ONU del 2015 le donne polacche sono quelle che in Europa più difficilmente hanno accesso a moderni metodi contraccettivi. Per ottenere la prescrizione della pillola senza dover attendere lunghi mesi per un appuntamento in un ambulatorio pubblico, una donna deve rivolgersi a una clinica privata, pagando 400 zloty per la visita e più di 100 per l’anticoncezionale. Poiché la prescrizione va rinnovata 4 volte l’anno alla fine il costo ammonta al 13% di uno stipendio medio. Si crea dunque un circolo vizioso – meno possibilità di contraccezione, più gravidanze, più aborti – che da un punto di vista economico ha creato un mercato fiorente. Sempre più donne negli ultimi anni si sono rivolte all’estero, per effettuare l’interruzione di gravidanza in cliniche a prezzi più abbordabili o per acquistare farmaci per l’aborto chimico come misoprostol e mifepristone o comuni farmaci utilizzati ad esempio contro l’artrite, ma che possono provocare l’aborto come effetto collaterale. Ma il mercato clandestino si è immediatamente attivato per coprire questa domanda con prodotti venduti all’interno dei confini. 


CINEMA Google celebra Eisenstein/Morto Stalin…

Ieri Google celebrava i 120 anni dalla nascita di Sergei Eisenstein dedicandogli un doodle animato sulla sua pagina. IlSussidiario.net220118 ricorda la figura del regista, rivoluzionario perché vicino alla Rivoluzione russa di cui di recente si è ricordato il centenario, ma anche nella sua tecnica cinematografica, in particolare per quanto riguarda il montaggio dei suoi film. E la portata innovatrice della sua opera in qualche modo ancora resiste se qualche settimana fa il sito  TheSubmarine.it pubblicava un curioso articolo intitolato Non sapete usare le Instagram stories perché non conoscete Sergei Eisenstein. Com’è noto questa forza innovativa portò il regista a scontrarsi con la burocrazia sovietica staliniana, promotrice del ‘realismo socialista’, come strumento per ‘educare le masse operaie e contadine dell’URSS’ e più in generale di un’idea del cinema e della cultura in generale come strumento del potere politico per raggiungere i propri fini. Nel volume di Renzo Renzi Il cinema dei dittatori (1992) è pubblicato il verbale di una riunione del 1947, che testimonia i burrascosi rapporti tra il regista e l’apparato staliniano.  Eisenstein e il protagonista di Ivan il Terribile, Nicolaj Cerkassov vengono aspramente rimproverati. Auralcrave181018 racconta la storia travagliata di quella che avrebbe dovuto essere una trilogia, ma venne bloccata al secondo episodio. ‘Il vostro Zar è indeciso, sembra Amleto’—sentenzia Stalin – ‘Nella vostra presentazione sono stati commessi errori e deviazioni’. Seguono Zdanov: ‘Ivan il Terribile dipinto da Eisenstein è un nevrastenico’ e Molotov: ‘In generale l’accento è messo sulla psicologia, su una presentazione eccessiva delle contraddizioni psicologiche interiori e delle emozioni personali’. Potrebbe essere una scena di…

Morto Stalin se ne fa un altro, Gran Bretagna/Francia/Belgio, 2017, 106 minuti

Il trailer

Anche qui infatti a ribellarsi alla nomenklatura è un’artista, nel film una pianista, ex amante di Kruscev, a cui Stalin ha fatto massacrare la famiglia. Armando Iannucci, comico italo-scozzese molto noto al pubblico britannico per i suoi show televisivi, è l’autore di questo film intelligente e ironico che usa il linguaggio della commedia e uno humour tipicamente inglese (con un occhio ai Monty Python: uno dei superstiti, Michael Palin, è nel cast) per ricostruire, in modo surreale ma fedele, un clima storico, la morte di Stalin e la lotta per la successione al potere nell’URSS degli anni ’50. Tratto dal fumetto – oggi si direbbe graphic novel – scritto da Fabien Nury e disegnato da Thierry Robin, il film descrive in modo divertente paranoie, servilismi e trasformismi, che sono protagonisti di ogni dittatura, inclusa quella della burocrazia sovietica dell’era staliniana e che diventano la chiave interpretativa di una vicenda, che d’altra parte gli autori non hanno la pretesa di analizzare in chiave eccessivamente seria. Tanto che il film – come scrive Marzia Gandolfi su MyMovies‘Alla teoria (romanzesca) dell’avvelenamento o all’ipotesi ricorrente e inaccertabile dell’assassinio di Stalin per mano di Beria, Fabien Nury preferisce quella di una logica paranoia. Indecisi tra la paura (di essere purgati) e la speranza (di succedergli), i suoi compagni lo lasciarono crepare’. Ma è da vedere decisamente più di tanta documentaristica da History Channel a cui ormai siamo abituati.

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