print
POLITICA In Italia la settimana politica si apre all’insegna della polemica sulle fake news: più che un Russiagate nostrano l’eterno scontro di interessi economici e geopolitici globali in Europa, a colpi di rivelazioni, che in realtà rivelano ben poco. Difendere la ‘democrazia occidentale’ da Putin e dal populismo o schierarsi con la Russia per arginare l’egemonia USA e il rigore di Bruxelles? In realtà né l’una né l’altra ipotesi appaiono una risposta alla crisi sociale ed economica che colpisce i lavoratori e le classi medie in Italia e in Europa. LAVORO Mentre infuria la polemica politica sul tema del lavoro tra Renzi e la ‘nuova sinistra’ di MDP, SI e Possibile, i raiders di Foodora chiedono il riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato, una paga oraria minima di 7,50 euro l’ora e un monte ore settimanale di 20 ore garantite e a novembre l’intero settore della cosiddetta gig o net economy è entrato in subbuglio, coi lavoratori di Amazon che si prendono le prime pagine scioperando nel black Friday. Mentre i tassisti tornano in piazza riportando all’attenzione il problema Uber. Cosa rappresenta oggettivamente questa ‘nuova economia digitale’? Ed è vero che l’automazione e il web faranno esplodere la disoccupazione o è vero invece che stanno creando milioni di posti di lavoro con paghe da fame? TRASPORTI A proposito di tassisti e di trasporto pubblico, vi ricordate l’annuncio fatto all’inizio dell’anno dal ministro Del Rio? Quasi 4 miliardi stanziati per il rinnovo del vetusto parco mezzi delle aziende di trasporto comunali e regionali italiane. Mentre si discute la legge di bilancio 2018, l’ultima di questa legislatura, ci chiediamo che fine hanno fatto quei soldi e facciamo alcune verifiche sulla situazione nelle maggiori aziende di trasporto pubblico italiane. SINDACATO E ancora a proposito di trasporti alla GTT di Torino i lavoratori hanno appena votato per il rinnovo della RSU. Ne parliamo con Michele Schifone, neoeletto delegato e coordinatore regionale di USB Trasporti del Piemonte. 

No news contro fake news: USA e Renzi contro Putin, Grillo e Salvini…

Venerdì scorso il New York Times ha lanciato l’allarme fake news in Italia (inglese): la Russia sarebbe pronta a interferire nelle elezioni italiane sostenendo le forze antisistema e filoputiniane. Il NYT cita Renzi, che chiede ‘ai social network e in particolare a Facebook di aiutarci ad avere una campagna elettorale pulita’. La stampa italiana rilancia (Repubblica 24/11 abbonati, Sole24Ore 25/11, La Stampa 27/11 Tuttavia lo ‘scoop’ del NYT in realtà si basa solo su un articolo del sito americano Buzzfeed, scritto in collaborazione con Andrea Stroppa (consulente per la sicurezza informatica di Renzi e del PD). Buzzfeed accusa due testate digitali di serie c, Direttanews e Inews, di fare propaganda razzista sostenendo le posizioni filorusse del M5S e della Lega Nord (qui l’articolo di Buzzfeed in inglese, vedi anche Wired 22/11 e Formiche.net 26/11).. Poco dopo Facebook chiude le pagine delle due testate per violazione delle proprie regole e alla Leopolda Renzi denuncia un circuito di pagine e account falsi che diffondono bufale con una regia unificata Lega-M5S e annuncia che il PD ogni 15 giorni diffonderà un report (di Stroppa) per denunciare le fake news (La Stampa 27/11). Per capire come sia divampata questa polemica, nata da un collage di notizie note da anni, è utile ricostruire alcuni passaggi precedenti.

Il 15 novembre l’Atlantic Council, autorevole pensatoio USA , che annovera tra i suoi membri Henry Kissinger, Madeleine Albright (Segretaria di Stato di Bill Clinton), Condoleeza Rice, Colin Powell, Robert Gates (Segretario alla Difesa di Bush figlio), James A. Baker III (ex capo dello staff di Reagan e di Bush padre), Frank C. Carlucci (Segretario alla Difesa di Reagan), Ashton B. Carter (Segretario alla Difesa di Obama), aveva pubblicato The Kremlin’s Trojan Horses 2 (I cavalli di Troia del Cremlino 2). Che ruolo giochino istituzioni come l’AC negli USA lo spiega lo stesso NYT con un articolo del 2014 dall’inequivocabile titolo Foreign Powers buy influence at think tank (inglese): ‘Le potenze straniere comprano influenza dai think tank’. A conferma di quest’affermazione nella lista dei finanziatori dell’AC  compaiono governi e istituzioni di Norvegia, Svezia, Giappone, Lettonia, Montenegro, Cipro, Slovacchia, Lituania, Finlandia, Polonia, Lussemburgo, Corea del Sud, Gran Bretagna, Emirati Arabi Uniti, ma anche il fratello del Primo Ministro libanese Baha Hariri, il businessman iraniano Farhad Azima (finanziatore dei Clinton) e quello curdo Jawhar al-Sourchi, l’oligarca ucraino Victor Pinchuk, giganti finanziari (il gruppo assicurativo svizzero Zurich, JP Morgan, Moody’s, la banca pubblica turca Halk Bankasi, l’inglese HSBC, la francese Banque Populaire, Banca Europea degli Investimenti), compagnie petrolifere (tra cui le americane Chevron ed ExxonMobil e l’inglese BP), Google, Coca Cola, Walmart, Ford, la giapponese Toyota e la tedesca Bosch. Per l’Italia ci sono Cassa Depositi e Prestiti, Leonardo (ex Finmeccanica), ENI, San Paolo Intesa, Techint. In Italia gli Emirati Arabi, finanziatori dell’AC, controllano quote di Piaggio Aero, Unicredit, Alitalia (un’ inchiesta di Lettera43 di aprile descrive le strette relazioni tra gli sceicchi di Abu Dhabi, Matteo Renzi, Luca di Montezemolo, Diego Della Valle e gli amministratori delegati di Leonardo ed ENI).

Mentre The Kremlin’s Trojan Horses 1 trattava le interferenze russe in Francia, Gran Bretagna e Germania, il secondo volume (traduzione italiana a cura di PuntoCritico) si concentra su Grecia, Italia e Spagna. Gli autori italiani sono Jacopo Jacoboni, ex giornalista de La Stampa (autore di inchieste sui finanziamenti alla Fondazione Open di Renzi, sui presunti brogli alle primarie PD in Liguria e sui rapporti tra Virginia Raggi e gli studi legali Previti e Sanmarco) e Luigi Sergio Germani, dell’Istituto Gino Germani per le Scienze Sociali e gli Studi Strategici, guidato da Luciano Pellicani, ex direttore craxiano del periodico Mondoperaio e autore di numerosi saggi, tra cui Lenin e Hitler. I due volti del totalitarismo. Nel comitato scientifico dell’Istituto siedono tra gli altri Anna Maria Cossiga (figlia di Francesco), l’ex DC (di fede dorotea e andreottiana) Vincenzo Scotti, il renziano (ex bersaniano, ex cuperliano) Andrea Manciulli, responsabile Difesa del PD, presidente dell’Associazione Italia-USA e dell’Assemblea parlamentare presso la NATO, l’ex Capo di Stato maggiore della Difesa generale Camporini. L’Istituto Germani dal 13 novembre tiene seminari a Roma su ‘Disinformazione e sicurezza nazionale. Manipolazione delle percezioni, contromisure e ruolo dell’intelligence’ per giornalisti e addetti stampa, decisori politici e funzionari delle forze di sicurezza.

Per l’AC in Italia è presente un campo politico filorusso che annovera Lega, M5S, Fratelli d’Italia, CasaPound e Forza Nuova, ma anche il Partito Comunista di Marco Rizzo. Segue un dettagliato resoconto di incontri tra dirigenti della Lega e del M5S ed esponenti del partito di Putin, Russia Unita. Secondo il rapporto Putin, leader di una potenza mondiale ma economicamente in difficoltà (e dipendente dall’esportazione di gas e petrolio), non potendo competere con gli USA  esportando capitali nelle aree strategiche del mondo (come la Cina), è costretto a usare armi ‘asimmetriche’ come l’hackeraggio e la propaganda. L’emittente tv Russia Today e l’agenzia stampa Sputnik (di cui esiste un’edizione italiana) sono le punte di diamante di un sistema di informazione che analizza le vicende europee dal punto di vista del Cremlino, dando voce alle forze di opposizione più estreme e creando fake news e falsi complotti da immettere nel circuito ‘populista’ attraverso i social network. Il dossier è interessante e documenta le ‘relazioni pericolose’ tra Lega e M5S da una parte e il partito di Putin dall’altra, ovviamente giudicate da oltre oceano, per cui basta essere contrari all’invio dei soldati italiani in Lettonia per essere considerati ‘filorussi’ e con un’evidente sottovalutazione, nel caso del M5S, di quanto pesi la ‘fantasia al potere’ sulla politica estera del Movimento (vi immaginate quanto ci mette un ex funzionario del KGB con 40 anni di esperienza politica alle spalle ad abbindolare un Di Battista?). Per l’AC se 5 Stelle o Lega andassero al governo potrebbero colpire gli interessi americani e indebolire l’alleanza tra USA e Italia. Perciò il rapporto detta a Gentiloni un vero e proprio programma di governo: una lista dettagliata di misure che l’Italia dovrebbe applicare, inclusa la redazione di rapporti periodici per segnalare chiunque pubblichi notizie sgradite agli USA, in parte secretati, in parte pubblici e da diffondere a mezzo stampa nel quadro di una campagna di disinformazione (a proposito di critica alle ‘ingerenze esterne’…). Visto che non lo fa, pare che ci stiano pensando Renzi e la stampa.

Che i governi di USA, Cina e Russia lottino per imporre la propria egemonia nel mondo o almeno, nel caso di Russia e Cina, per salvaguardare una propria area di influenza è un’ovvietà. Così come il fatto che l’Europa sia, storicamente, teatro di scontro tra superpotenze, nonostante i suoi deboli tentativi di entrare a sua volta nel club dei grandi. Da sempre la propaganda rappresenta una ‘arma di guerra non militare’, ma nell’era della comunicazione globale essa assume un peso inedito. In questo quadro che una polemica ormai vecchia sulle ‘relazioni pericolose’ tra Putin, Salvini e Grillo si incendi, improvvisamente, senza che di fatto sia accaduto nulla, non fa che riflettere il tentativo, da parte di un pezzo di establishment americano, di drammatizzare la discussione, trovando una sponda in settori politici ed economici europei e italiani che pensano (forse troppo ottimisticamente) di poter cambiare gli equilibri politici interni. E’ comprensibile che per essi una crescita dell’instabilità politica nella terza economia europea costituirebbe evidentemente un problema. Viceversa potrebbe rappresentare, ma solo entro certi limiti, un vantaggio per Mosca. Tuttavia la doppia clamorosa sconfitta del Front National alle elezioni presidenziali e legislative francesi dimostra che, per fortuna, per influenzare il destino di un paese non bastano le fake news, i siti civetta e neanche qualche aiutino economico che Putin potrebbe elargire ai ‘populisti’. 


Economia digitale in agitazione: un punto di vista internazionale

Circa un anno fa avevano scioperato conto l’introduzione del cottimo. A novembre i raiders di Foodora e Deliveroo, che pedalando sulle loro bici consegnano piatti pronti a domicilio per pochi euro l’ora, tornano alla ribalta chiedendo l’abolizione delle false partite Iva e il riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato, con l’applicazione del contratto nazionale della logistica, un salario netto di 7,50 euro l’ora, 20 ore di lavoro garantite per tutti (Fatto Quotidiano 21/11/2017). A Torino su questo tema gli ex lavoratori di Foodora, lasciati a casa dalla multinazionale tedesca per aver partecipato agli scioperi di un anno fa, chiedono di essere ‘reintegrati’, in quanto dipendenti di fatto, appoggiandosi a un articolo del Jobs Act, che imporrebbe l’applicazione della disciplina del lavoro dipendente ai collaboratori  il cui lavoro sia ‘organizzato dal committente, con riguardo anche al luogo e ai tempi della prestazione’ (sul Fatto Quotidiano 29/11/2017, Davide Bonsignorio, giuslavorista dell’Associazione Giuristi Italiani spiega perché). E suona un po’ paradossale che mentre i lavoratori chiedono, tra l’altro, 20 ore di lavoro garantite, Sinistra Italiana abbia presentato una proposta di legge che mira a ‘regolarizzare’  il loro lavoro attraverso il lavoro a chiamata (Wired 17/02/2017), che, pur nella forma del lavoro subordinato,  consente alle aziende, appunto, di ‘chiamare’ il lavoratore quando e per il tempo che vuole. Intanto a Piacenza i lavoratori del centro logistico Amazon (1800 a tempo indeterminato, fino a 3mila interinali) nel black Friday scioperano contro le condizioni di lavoro da vecchia catena di montaggio fordista rivisitate mediante le nuove tecnologie (BusinessInsider 23/11/2017, Fatto Quotidiano 24/11/2017, Sole24Ore 23/11/2017). Su un altro versante i tassisti tornano a scioperare contro la minaccia Uber-NCC (Formiche.net 22/11/2017 ricapitola i termini della questione).

Uno studio Mc Kinsey dell’ottobre 2016, Indipendent work: choice, necessity and the gig economy (versione integrale e sintesi in inglese), ci aiuta a capire che cosa rappresenti materialmente l’economia dei lavoretti via web negli USA e nell’UE a 15, inquadrandola nel fenomeno più generale del ‘lavoro autonomo’. Per Mc Kinsey su 162 milioni di ‘autonomi’  il 15% usa piattaforme digitali. Ma questi lavoratori non sono tutti uguali. Il 30% sono free agent, che cercano attivamente un impiego autonomo e ne ricavano il loro reddito primario, il 40% casual earners, che fanno ‘per scelta’ un lavoro autonomo per integrare il proprio reddito, il 14% reluctant, che hanno nel lavoro autonomo la loro fonte di reddito principale ma preferirebbero avere un impiego tradizionale, il 16% financially strapped, che per necessità integrano il proprio reddito principale con un lavoro autonomo. Dunque 49 milioni su 162 sono ‘autonomi’ obtorto collo e 90 milioni lo fanno per integrare un reddito insufficiente. I dati del rapporto dunque contribuiscono anche a sfatare il mito per cui il ‘lavoro in rete’ rappresenti in generale un’opportunità di lavorare con maggiore libertà. Ad esempio, per quanto riguarda la distribuzione del lavoro autonomo e digitale tra le fasce sociali Mc Kinsey (aldilà del titolo della grafica) deve rendere conto del fatto che si tratta di un’occupazione diffusa in particolare nelle categorie deboli: giovani, donne, anziani e famiglie a basso reddito.

Inoltre 150 su 162 milioni di ‘autonomi’ non svolgono attività di carattere imprenditoriale (vendita o affitto di proprietà), ma effettuano prestazioni di lavoro e tra essi la percentuale di chi guadagna grazie al web è la più bassa (6%).

 

D’altra parte i dati storici mostrano che il lavoro autonomo tende a diminuire al crescere dell’industria …

…mentre il lavoro stabile tende ad aumentare al crescere del PIL pro capite.

 

Dunque la crescita della gig o net economy non è che il risultato di una progressiva diminuzione del potere contrattuale dei lavoratori nel mondo e della crisi economica, in particolare nei paesi occidentali. Sono sempre più le aziende che usano internet e la propria  fantasia imprenditoriale per abbassare il costo del lavoro e sottrarre il lavoro alla regolamentazione imposta dalla contrattazione nazionale (e alla normativa fiscale) nei diversi paesi. La tabella successiva dà un’idea dell’ampiezza e della diversificazione del fenomeno.

Crowdflower, gruppo citato nella tabella precedente, è una piattaforma attiva anche in Italia. Una volta iscritti si possono scegliere dei task (compiti) – ad esempio categorizzare i risultati di alcuni motori di ricerca, scrivere false recensioni, mettere like a una pagina FB  – e svolgerli  a casa, seduti al proprio computer, ricevendo pochi centesimi a clic. Ne parlano L’Espresso 11/05/2013, dall’inequivocabile titolo ‘Sul web ti pagano mezzo cent’ e Huffington Post 21/03/2017 (che addirittura lo suggerisce come strumento per combattere la disoccupazione giovanile al sud), secondo cui un rapporto della Banca Mondiale stima in 2300 le piattaforme di crowdwork nel mondo e prevede un fatturato di 25 miliardi di dollari nel 2020. Secondo Antonio Casilli, ricercatore del Centro Edgar Morin di Parigi, sono 100 milioni i ‘microlavoratori’ nel mondo (sul nesso tra web, intelligenza artificiale e lavoro segnaliamo l’interessantissima la lectio magistralis di Casilli tenuta nel corso di un convegno organizzato il 17 settembre a Lecce dalla CGIL, qui l’audio, la relazione inizia al minuto 10). L’Espresso indica la necessità di una regolamentazione per legge di questo tipo di occupazione, ma è chiaro che senza una mobilitazione dei lavoratori è improbabile che ciò accada. Da questo punto di vista le recenti iniziative dei ‘collaboratori’ italiani di Foodora, Deliveroo, Amazon sono un segnale incoraggiante.

(traduzione dei grafici a cura di PuntoCritico) 


Trasporto pubblico locale: che fine hanno fatto i soldi per i bus nuovi?

Il trasporto pubblico locale (TPL) è uno dei servizi pubblici più importanti per garantire a una società avanzata sia il diritto alla mobilità per i cittadini, in particolare per i lavoratori e le fasce meno ricche, sia un importante volano di sviluppo economico. Ma in Italia siamo sull’orlo del baratro. Nel 2013, durante le 5 giornate di ‘sciopero selvaggio’ dei tranvieri genovesi, il sottosegretario ai Trasporti Erasmo De Angelis dichiarava che su 1140 aziende di TPL il 43-44% sono ‘tecnicamente fallite’ e che il Fondo Nazionale Trasporti è sottofinanziato: 4,9 mld l’anno contro un fabbisogno di 6,4 (Corriere 23/11/2013). Negli stessi giorni Linkiesta pubblicava un’interessante articolo sui ‘Sette peccati capitali del TPL’, riportando dati e grafici da una relazione del professor Andrea Boitani, esperto di trasporti della Cattolica di Milano. L’annuncio, ai primi dell’anno, di un piano di investimenti di 4 miliardi di euro per il rinnovo di un parco mezzi tra i più vecchi in Europa, con l’obiettivo di togliere 6500 bus vecchi entro 16-18 mesi e comprare 2mila bus nuovi l’anno nei prossimi anni (comunicato del MIT 20/01/2017) ha fatto sperare in un’iniezione di liquidità che potrebbe risolvere molti problemi alle aziende del settore. Ma, a quasi un anno, quei soldi sono stati effettivamente stanziati e il rinnovo dei mezzi è partito?

Secondo quanto ci riferiscono alcuni delegati sindacali delle maggiori aziende alla GTT di Torino e all’ANM di Napoli nel 2017 non è stato acquistato alcun mezzo, l’ATAC di Roma ne ha comprato 15, meglio Genova dove, tra il 2016 e il 2017 AMT (trasporto urbano) ne ha acquistati una novantina con fondi europei, regionali e propri, più 15 usati, mentre ATP (trasporto extraurbano) nello stesso periodo ne ha comprati 25-30.  Peraltro il sindacato ORSA a Genova ha denunciato subito problemi di carattere meccanico sui nuovi bus e ha affermato che i mezzi di seconda mano fatti venire dalla Svizzera avrebbero più di 15 anni (Genova24 01/03/2017).

Un rapporto di Cassa Depositi e Prestiti e ASSTRA. proprio di gennaio, descrive una situazione critica. Dal 2004 l’età media dei mezzi in Italia è in forte crescita…

…col risultato che il dato si attesta a 11,4 anni, il più alto tra i maggiori paesi europei.

Le conseguenze sono che il 99% dei mezzi sono diesel, mentre quelli a trazione elettrica o ibrida sono praticamente inesistenti e che quasi il 60% sono euro 2 o 3 (a Roma il Comune ha vietato l’ingresso nella ‘zona verde’ del Centro ai veicoli privati al di sotto dello standard euro 4, che ovviamente non si applica ai mezzi ATAC).

Nonostante ciò il parco mezzi italiano dal 2005 ha perso circa 8mila unità su (58mila) – un calo medio annuo dell’1,3% e le immatricolazioni sono scese quasi dell’11% annuo.

Nello stesso periodo la produzione nazionale di autobus è passata da 3459 (2005) a 289 (2014), uno dei tanti settori industriali spariti dall’Italia. In questo quadro il ‘piano strategico’ di Del Rio – come mostra il grafico sotto – avrebbe il merito di stanziare una cifra cospicua (3,7) miliardi di euro, (che fino al 2022 si sommerebbero a quanto già stanziato dalle precedenti finanziarie) e di essere effettivamente di lungo respiro (250 mln di euro nel 2019 e 200 l’anno dal 2020 al 2033. Diciamo ‘avrebbe’ perché – come spiega anche il rapporto di CDP, il piano doveva essere attivato con l’approvazione di un Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri entro il 30 giugno, ma di tale decreto non c’è traccia.

 


s

Elezioni RSU alla GTT Torino: i lavoratori premiano USB

Mercoledì e giovedì i circa 5mila dipendenti della GTT, l’azienda della mobilità torinese hanno votato per il rinnovo della rappresentanza sindacale. Il voto si è svolto in un clima inedito. ‘Questa volta non c’è stato il tradizionale atteggiamento di indifferenza. Nei mesi scorsi i colleghi si sono dimostrati particolarmente attenti alle elezioni e questa attenzione si è manifestata nella partecipazione alta. Mentre l’ultima volta a votare era stato circa il 65% dei dipendenti, stavolta in alcuni depositi si sono toccate punte dell’80%.’.  Probabilmente a pesare è stata la situazione critica di GTT. Da una parte l’inchiesta per falso in bilancio, ormai in fase di chiusura, che potrebbe portare all’emissione di 9 avvisi di garanzia per i vertici dell’Azienda (Repubblica 24/10/2017). Dall’altra i problemi di bilancio. Il piano industriale non è ancora stato presentato e la sindaca Chiara Appendino sembra intenzionata ad attendere l’approvazione definitiva dell’emendamento del senatore Esposito (PD), che dovrebbe stanziare 40 milioni per la società torinese. Ma anche la novità rappresentata da USB, che questa volta ha deciso di presentare una lista, per portare una proposta sindacale alternativa a quelle dei grandi sindacati del settore – CGIL CISL UIL FAISA e FAST. I dati, ancora provvisori, sono lusinghieri. ‘Siamo il primo sindacato nel deposito del Gerbido – circa 400 autisti – con 129 voti e due RSU eletti, più un eletto al Tortona e uno a Venaria, a cui potrebbe aggiungersene un quinto grazie ai resti’. Una piccola pattuglia in una RSU di 60 membri, ma – commenta Schifone ‘si tratta di un risultato soddisfacente per un piccolo sindacato di circa 100 iscritti, tenuto conto che non siamo riusciti a presentarci e a vigilare sul voto in tutti le sedi e i depositi aziendali’. Nel frattempo c’è un fenomeno di crescita generale di USB nel settore (all’ultimo sciopero generale l’adesione alla GTT è stata molto alta). ‘Ultimamente siamo entrati nell’azienda di Saluzzo e in effetti c’è un clima in cui abbiamo l’opportunità di crescere ancora’.

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi