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ESTERI In Zimbabwe da ieri notte è in atto un colpo di Stato militare. Un articolo della nostra redazione ricostruisce i fatti e gli aggiornamenti fino a poche ore fa, ma soprattutto cerca di dare un quadro della situazione politica, economica e degli interessi internazionali di cui il paese africano è al centro. Ma anche il Medio Oriente è in subbuglio: nonostante la stampa italiana se ne stia occupando poco, le recenti dimissioni del premier libanese Hariri e la contemporanea epurazione ai vertici dello Stato e dell’economia saudita da parte del principe ereditario Mohammad Bin Salman riflettono profondi mutamenti del quadro politico internazionale e un’escalation nel conflitto per procura tra l’Iran e l’Arabia Saudita, che si sposta verso il Mediterraneo,coinvolgendo la stessa Europa. ECONOMIA In Italia si discute di Legge di Stabilità e l’Europa annuncia una lettera all’Italia, che dovrebbe arrivare mercoledì prossimo e chiedere più attenzione ai conti al prossimo governo. Le pensioni sono ancora una volta nel mirino. Ma è proprio vero che in Italia l’età pensionabile è troppo bassa e che siamo i privilegiati d’Europa? Poi c’è la questione ILVA. Nei prossimi giorni Governo, ArcelorMittal e sindacato torneranno al tavolo di trattativa su salari, esuberi e piano industriale, ma pesa fortemente su questa vicenda il cartellino giallo arrivato qualche giorno fa dalla Commissione Europea, che vede nell’acquisizione di ILVA da parte del Gruppo indiano (in società con Marcegaglia) un problema sia in termini di antitrust sia rispetto a possibili squilibri dei prezzi nel mercato dell’acciaio. SOCIETA’ Lo scandalo delle molestie sessuali a Hollywood si allarga e approda anche in Italia. Tutti ne parlano, ma in pochi sottolineano che non è una questione morale, ma un fenomeno che riflette la struttura del potere nella società, a partire dai posti di lavoro. Negli USA invece qualcuno lo dice


ZIMBABWE Che cosa sta succedendo e perché

Nella notte l’esercito dello Zimbabwe avrebbe preso il controllo del paese e arrestato il 93enne presidente Robert Mugabe, capo del Zimbabwe African National Union Patriotic Front (ZANU-PF) e al potere dal 1980. Anche se, in un comunicato diffuso alla televisione, il portavoce dell’esercito nega che si tratti di un Colpo di Stato e afferma che il Presidente e la sua famiglia sono al sicuro e che l’esercito sta solamente ‘prendendo di mira criminali che lo circondano’.  Tuttavia alcuni tweet pubblicati nel pomeriggio sull’account @zanu_pf affermano non c’è stato un colpo di Stato, ma una transizione senza spargimenti di sangue’ e che l’ex vicepresidente  ‘il compagno Mnangagwa  ci aiuterà a ottenere uno Zimbabwe migliore’. La stampa italiana riferisce questi ultimi tweet, senza peraltro specificare che si tratta un account contestato, gestito dai sostenitori dell’ex vicepresidente Emmerson Mnangagwa. Mentre @ZANUPF_Official, che rivendica di essere la voce ufficiale del Partito, rimanda ai media di Stato per avere notizie sull’attuale situazione. Infine un video pubblicato su Youtube po fa annuncia il rientro dall’esilio dello stesso Mnangagwa, che in serata dovrebbe  tenere una conferenza stampa. Per capire partiamo partire dagli antefatti.

All’interno del partito di Mugabe, lo ZANU-PF, protagonista prima della lotta di liberazione dell’ex colonia inglese (all’epoca si chiamava Rhodesia) e poi di una lunga guerra civile tra le due maggiori etnie del paese, bantù shona e ndebele, e originariamente caratterizzato da riferimenti ideologici ‘socialisti’, si è aperto da tempo uno scontro per la successione. Nel 2018 si terranno le elezioni e a dicembre il prossimo congresso del partito di governo, che dovrebbe confermare la candidatura di Mugabe a presidente e modificare lo Statuto per consentire l’elezione di una vicepresidente. Si tratta presumibilmente di un espediente per spianare la strada a Grace Mugabe, moglie del presidente e a capo del G40 (Generation 40), la fazione dei 40enni del Partito. Il principale antagonista della famiglia Mugabe è Emmerson Mnangagwa, ex vicepresidente, dimesso dal Governo ed espulso dal paese lo scorso 9 novembre.

L’economia dello Zimbabwe

Lo Zimbabwe è tradizionalmente conosciuto come il ‘granaio dell’Africa’. L’economia è fondata sull’agricoltura (all’epoca del dominio britannico controllata da un pugno di latifondisti bianchi), che rappresenta circa il 12% del PIL e sull’industria (27%), in particolare estrattiva. I principali prodotti agricoli sono tabacco (lo Zimbabwe è il quinto esportatore nel mondo), cotone, grano e mais, caffè, zucchero, noccioline, mentre il sottosuolo fornisce carbone, oro e diamanti, platino, rame e altri metalli. Come accade comunemente in Africa ciò fa del paese un terreno di scontro geopolitico tra le maggiori potenze mondiali.

Dopo un periodo di crescita economica a doppia cifra (+10%) dal 2010 al 2013 e un rallentamento (+4%) nel 2014, lo Zimbabwe è entrato in recessione nel 2016, in parte forse per alcune scelte sbagliate di politica agricola, ma soprattutto per l’impatto della crisi mondiale sui paesi esportatori di materie prime. Il 90% dei 13 milioni di abitanti dello Zimbabwe è disoccupato e l’iperinflazione ha reso la valuta nazionale carta straccia, costringendo la Banca Centrale a smettere di stampare moneta e ad adottare il dollaro americano e il rand sudafricano come valuta per i pagamenti. Lo Stato attualmente non è in grado di pagare neppure gli stipendi dei dipendenti pubblici e questo è uno dei fattori di scontento dei militari nei confronti di Mugabe. Nel paese sono in fase di realizzazione alcuni piani di salvataggio ‘lacrime e sangue’ del FMI.

Uno dei fattori di scontro tra la ‘fazione Lacoste’ di Mnangagwa, forte nell’esercito, e ‘Generation 40’ di Grace Mugabe è proprio la politica di sfruttamento delle risorse economiche. Nel 2008 Mugabe impose un piano di ‘indigenizzazione’ delle grandi imprese, che costringerebbe le aziende straniere o sotto il controllo di imprenditori bianchi con un patrimonio superiore a mezzo miliardo di dollari a cedere il 51% delle quote sociali a imprenditori neri o allo Stato. A seguito delle proteste degli investitori stranieri la legge di fatto non è mai stata applicata, ma nel marzo 2016 il Governo ha annunciato che sarebbe diventata operativa dal primo aprile, invitando le imprese interessate a mettersi in regola, pena il sequestro degli asset aziendali. Mnangagwa rappresenta l’ala più liberale dello ZANU, quella meno entusiasta del provvedimento e più favorevole a proseguire una politica di apertura del mercato interno e dello sfruttamento delle risorse nazionali da parte di imprese straniere. Non a caso in un tweet pubblicato oggi da @zanu_pf si sottolinea che ‘il paese è stabile e aperto al business’.

Lo Zimbabwe tra USA, GB, Cina e… Chiesa Cattolica

Chi sono i grandi player internazionali interessati a questa discussione? I soliti. Gli Stati Uniti da anni boicottano il Governo di Mugabe, accusandolo di essere un dittatore, ma allo stesso tempo sono presenti nel paese con una serie di progetti umanitari. Nel 2010 Wikileaks rivelò alcuni cablogrammi relativi a una trattativa in corso tra USA e personaggi dell’opposizione a Mugabe per sostituire l’anziano dittatore con una leadership più gradita alla Casa Bianca. Qualche giorno fa una giornalista e attivista per i diritti civili americana, Martha O’Donovan, collaboratrice di un’emittente tv di opposizione è stata arrestata e poi rilasciata con l’accusa di aver insultato Mugabe con un tweet. Ma potrebbe trattarsi di un segnale lanciato dal Governo ai tentativi di ingerenza americani. La diplomazia britannica, ex potenza coloniale nel paese, sembra guardare con favore a un regime change. Circa un anno fa Simukai Tinhu, analista politico dell’Independent scriveva che ‘c’è poco da stupirsi se gli inglesi sembrano prendere in seria considerazione l’ipotesi di un governp post ZANU-PF, in cui Mnangagwa sarebbe il nuovo leader’ e citava una dichiarazione dell’ambasciatrice di Sua Maestà nel paese africano, secondo cui ‘Mnangagwa è un uomo con cui gli inglesi possono fare affari’.

Ma c’è un altro grande protagonis. Secondo un sondaggio di Afrobarometer per il 55% degli abitanti il paese straniero che esercita un maggio influsso sullo Zimbabwe è la Cina. La Cina ha un rapporto preferenziale con Mugabe dall’epoca della sua fase ‘marxista-leninista’. Dal 2002 al 2012 ha investito in almeno 128 progetti. Lo Zimbabwe, con 600 milioni di dollari ricevuti nel 2013 è uno dei 3 paesi africani in cui Pechino esporta più capitali. Nel 2012 ha ricevuto 150 milioni di dollari per combattere la fame e più di recente 46 milioni per costruire un nuovo palazzo del parlamento. Nel 2015 Xi Jinpin ha promesso investimenti miliardari in infrastrutture e nel settore dell’energia. La Cina compra il 54% del tabacco prodotto nello Zimbabwe. Le due valute cinesi sono state adottate come monete, insieme al dollaro USA e al rand, e questo rappresenta un passo avanti nell’internazionalizzazione della valuta cinese. Wang Xinsong, professore associato della Beijing Normal University School of Social Development and Public Policy, in un articolo pubblicato un anno fa, da cui ho tratto i dati citati, parlava addirittura di ‘rischio Zimbabwe per la Cina’.

C’è poi un altro importante protagonista internazionale, il cui peso nel continente africano non andrebbe mai perso di vista: la Chiesa cattolica. Circa l’87% della popolazione è cristiana e i cattolici secondo alcune fonti rappresentano quasi il 10%, secondo altre il doppio. La Chiesa Cattolica gioca un ruolo sociale (e di conseguenza politico) grazie al controllo di centinaia di scuole e organismi di beneficenza, fondamentali vista la profonda crisi sociale. Ciò ha portato ad alcuni scontri abbastanza accesi tra i vertici locali della Chiesa cattolica e Mugabe, che tuttavia è cattolico e di recente è volato a Roma sia per partecipare alla cerimonia di santificazione di Giovanni Paolo II sia alla cerimonia di insediamento di Papa Francesco.

Nelle prossime ore sarà più chiaro quale sviluppo avranno gli avvenimenti. Ma, qualunque cosa accada, gli interessi materiali, economici e geopolitici, che abbiamo cercato di riassumere, giocheranno un ruolo decisivo. 


MEDIO ORIENTE venti di guerra sul Mediterraneo?

La stampa italiana sta prendendo abbastanza sotto gamba alcuni eventi che riflettono una rapida escalation nello scontro tra Arabia Saudita e Iran, con conseguenze potenzialmente drammatiche. Il 4 novembre, giorno in cui i ribelli Huthi, alleati di Teheran, avrebbero lanciato un attacco missilistico all’Arabia Saudita dallo Yemen, il premier libanese Said Hariri annunciava le proprie dimissioni in diretta tv durante una visita ufficiale in Arabia Saudita. L’aereo di Hariri è rientrato in Libano senza il Presidente, che – secondo Al Jazeera – sarebbe ‘tenuto in ostaggio (dai sauditi) perché rifiuta di scontrarsi con Hezbollah’, il partito libanese filoiraniano. Riad, forte dell’appoggio di Trump (la politica di distensione di Obama con l’Iran è ormai lontana), reagisce allo scacco che i sunniti stanno subendo in Iraq e Siria con la sconfitta dell’ISIS. E lo scontro tra Iran e Arabia Saudita sposta il suo asse verso il Mediterraneo (analisi di ISPI, Wall Street Italia) e colpisce paesi europei come la Francia, da sempre dominus della politica libanese, ma anche partner economico di primo piano sia dell’Iran sia dei Paesi del Golfo (Formiche.net). Macron il 9 novembre volava immediatamente a Riad per cercare di salvare Hariri (e gli interessi francesi). L’Arabia Saudita si ritrova con un inedito alleato. L’altro ieri la stampa israeliana denunciava un recente accordo tra Trump e Putin per la creazione di una zona militare di de-escalation tra Siria e Israele che permetterebbe a Hezbollah e ai reparti dei pasdaran iraniani presenti in Siria di minacciare i confini nazionali (mappa su Debkafile). E qualche giorno prima il giornalista israeliano Barak Ravid il 6 novembre pubblicava un cablogramma riservato che invita i diplomatici di Tel Aviv a fare lobbyng a favore dell’Arabia Saudita, contro Iran e Hezbollah (Wall Street Italia). Sauditi e israeliani, che formalmente non hanno alcun rapporto diplomatico, in questo momento dunque giocano sullo stesso fronte. Alcuni commentatori non escludono la possibilità che la tensione possa innescare uno scontro militare per procura proprio in Libano. Nel frattempo, il 6 novembre, Mohammad Bin Salman, figlio 32enne del re saudita e principe ereditario, dava il via a una vera e propria purga di notabili sauditi, che ha portato alla rimozione di numerosi ministri e alla detenzione di una dozzina di principi (infografica di Al Jazeera, altri dettagli su Limes).


DOCUMENTO 1: FranceInfo, 4 novembre 2017

Dimissioni di Hariri: ‘I leader libanesi non hanno la minima autorità: le decisioni vengono prese a Taheran o a Riad’

Karim Emil Bitar, direttore di ricerca all’IRIS (Institut de Relations International et Stratégique), ha commentato le dimissioni del Primo Ministro libanese: ‘La decisione gli è stata evidentemente suggerita o addirittura imposta, mente era in visita in Arabia saudita’.

Un anno dopo essere diventato Primo Ministro del Libano Said Hariri si è dimesso. Ha spiegato di essere oggetto di troppe minacce: ‘Ho sentito voci di trame nell’ombra per attentare alla mia vita’ ha spiegato sabato 4 novembre. Pensa che la situazione identica a quella precedente l’assassinio di suo padre, Rafik Hariri, nel 2005, un attentato all’epoca attribuito a Hezbollah.

Per Karim Emile Bitar, direttore di ricerca all’IRIS, l’Institut des Relations Internationales et Stratégiques, specialista in Medio Oriente,  in Libano ‘sta per aprirsi una vera crisi istituzionale che durerà parecchi mesi’.

Come si spiegano queste dimissioni?

Sembra che si sia trattato di una vera e propria imposizione saudita, la volontà di alzare i toni, di arginare l’influenza iraniana sia in Libano che in Siria. Saad Hariri si è trovato in contraddizione rispetto ai suoi padrini stranieri: la decisione gli è stata evidentemente suggerita o addirittura imposta, mente era in visita in Arabia Saudita qualche giorno fa.

Ciò spiega perché abbia dato l’annuncio dopo essere arrivato a Riad?

Certo, scelta che è stata presa molto male in Libano, anche tra i suoi sostenitori, perché si vede molto chiaramente che i leader libanesi non hanno la minima autorità, che le decisioni vengono prese a Teheran o a Riad. Ma sembra che ci sia anche una volontà di Donald Trump di mettere pressione su Teheran: Trump non è riuscito a fermare l’accordo sul nucleare negoziato da Obama e cerca di fare pressione sull’Iran su altri terreni. E’ perfettamente in linea con la nuova politica saudita e i sauditi hanno la sensazione di trovarsi oggi in una posizione di debolezza. Hanno diverse ragioni per avere paura e tale paura li porta a volte a fare ancora più errori, ieri in Yemen, domani, forse, in Libano.

Quale avvenire per questo paese? C’è da temere un’altra guerra civile?

Il Libano rischia ancora una volta di pagare il prezzo di quella guerra tra coalizioni regionali, di tornare a essere uno Stato cuscinetto, una cassa di risonanza per i numerosi conflitti locali. Dopo molti anni aveva adottato una politica di smarcamento dalla guerra in Siria e da quei conflitti locali. Sfortunatamente oggi si ritrova nuovamente invischiato in una guerra che passa sulle teste dei libanesi e contiene molte minacce sia alla stabilità finanziaria sia alle previste elezioni legislative. Una guerra civile libanese non è possibile, ma ci sono rischi di un conflitto che coinvolga sia Israele ed Hezbollah sia il sud della Siria. Si teme anche il rafforzarsi del dominio iraniano nel sud della Siria. Se dovesse esserci una deflagrazione toccherebbe sia il fronte libanese sia quello siriano ed evidentemente il Libano pagherebbe il prezzo più caro rispetto di tutti gli altri paesi.

Cosa succederà nelle prossime settimane? Bisogna innanzitutto che le dimissioni siano accettate dal Presidente della Repubblica Michel Aoun. E’ questo che succederà?

Il Primo Ministro resterà in  carica per il disbrigo degli affari correnti fino a che il Parlamento non avrà scelto un successore. Ma, tenuto conto dell’attuale polarizzazione, delle assai profonde divisioni del Libano, non si vede bene come si possa ottenere una convergenza su un nome diverso da quello di Hariri. E’ per questo che la crisi probabilmente non si risolverà prima di parecchie settimane o di parecchi mesi.


DOCUMENTO 2: PuntoCritico, 14 novembre 2017

Intervista ad Alì Ghaderi, Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (Fedayn del Popolo)

Come possiamo interpretare i fatti degli ultimi giorni?

Ci sono due aspetti. Da una parte una svolta nella politica americana dopo l’elezione di Trump. La politica di Obama, che aveva portato alla firma dell’accordo sul nucleare, è stata sostituita da un atteggiamento molto più aggressivo. Le sanzioni nei confronti del Regime sono diventate molto più rigide e addirittura l’organizzazione dei Pasdaran, i ‘Guardiani della Rivoluzione’, uno dei pilastri del Regime, e in particolare degli ayatollah, è stata inclusa di recente nella lista nera delle organizzazioni terroristiche. Questo cambio di approccio ovviamente ha dei riflessi importanti su tutto lo scenario mediorientale.

E poi?

E poi emerge prepotentemente l’obiettivo su cui il Regime ha investito in questi anni: la ricerca di uno sbocco sul Mediterraneo. Tutta la politica dei governi iraniani dell’ultima fase si è sempre concentrata su questo obiettivo strategico e devo dire che, complessivamente, si sono mossi in modo intelligente. La reazione dei nemici di Teheran è una risposta a questa strategia. La presenza iraniana in Iraq e in Siria, il sostegno ai ribelli yemeniti, l’influenza in Libano e anche in Palestina, attraverso il rapporto con Hamas, vanno letti in questo senso.

La ‘Repubblica islamica’ quindi si sta rafforzando?

Dal punto di vista esterno sì, da quello interno c’è una lotta di fazioni che mina la stabilità del Regime. A ottobre la figlia di Alì Larijani, capo dell’Autorità giudiziaria e personaggio influentissimo, è stata arrestato con l’accusa di spionaggio e circolano voci sul possibile arresto di uno dei fratelli di Larijani. Anche l’ex capo del Governo Ahmadinejad sta lanciando una sfida pericolosa alla ‘Guida suprema’, l’ayatollah Khamenei, e potrebbe incorrere in analoghi provvedimenti. Tutto questo significa che un atteggiamento più aggressivo in politica estera potrebbe essere una delle carte che il Regime si gioca per superare le proprie divisioni interne e la propria debolezza. D’altra parte anche la monarchia saudita si è molto indebolita. Ci sono due debolezze in campo.

Come incide questo sulla politica europea?

La prima potenza a essere interessata è la Francia. Il Libano è, notoriamente, una sorta di protettorato francese. D’altra parte le recenti dichiarazioni di Macron sul Trattato nucleare che andrebbe emendato a mio avviso indicano che per il governo francese quell’accordo è ormai cabcellato. E questo crea contraddizioni nell’Unione Europea. A ottobre la ministra degli esteri europea Mogherini si era infatti rivolta a Trump chiedendogli di salvaguardare l’accordo. 


ACCIAIO Preoccupazioni internazionali per la fusione ArcelorMittal-ILVA

 DOCUMENTO: Annalisa Villa, S&P Global, Platts, novembre 2017

ACCIAIO Mercati e Commissione Europea preoccupati per la vendita ILVA

Per i dirigenti di ArcelorMittal nuovo incontro per la trattativa su ILVA (9 novembre 2017)

Anche i sindacati genovesi incontreranno AM a Roma

ArcelorMittal incontrerà nuovamente sindacati e rappresentanti del Governo mercoledì 9 novembre per continuare la discussione sul piano industriale ILVA, dopo che uno sciopero a Genova ha bloccato la produzione per due giorni.

Il segretario della FIOM di Genova, Bruno Manganaro, ha dichiarato a S&P Global Platts che parteciperà alla riunione insieme ai rappresentanti nazionali della FIOM.

‘Noi non siamo contro Mittal e salutiamo una collaborazione con l’Azienda, ma vogliamo capire quale sarà il futuro di Genova – ha detto – Al momento abbiamo 380 lavoratori nel piano nazionale degli esuberi e Mittal vuole elevare questo numero a 600’ – ha proseguito – facendo capire che il sindacato vuole sapere se ci sia in programma la chiusura di alcune linee di produzione nello stabilimento genovese.

‘Se ArcelorMittal acquisirà ILVA erediterà anche un milione di metri quadri di concessioni nel Porto di Genova’ – ha detto Manganaro. ‘Se AM vuole continuare a usare tutte queste aree deve mantenere anche tutti i lavoratori’ – ha spiegato.

Con due linee di produzione Genova produce circa 1 milione di tonnellate di acciaio zincato a caldo, mentre una terza linea al momento è inattiva. Inoltre produce 160mila metri l’anno di banda stagnata, ma entrambe i prodotti potrebbero creare preoccupazioni all’UE in materia di antitrust, per cui alcune fonti sostengono che ad AM verrà richiesta la cessione di alcune linee di produzione di questi prodotti per poter realizzare la fusione.


La Commissione Europea aprirà un’inchiesta sull’accordo ILVA (10 novembre)

La Commissione Europea ha annunciato mercoledì scorso, 8 novembre, che ha aperto un’inchiesta formale sull’acquisizione di ILVA da parte di ArcelorMittal. La Commissione ha deciso di non dare il via libera dell’accordo 5 giorni prima della scadenza dei termini della fase 1 e ha detto che la fase 2 di approfondimento potrebbe durare fino al 23 marzo 2018.

La fusione potrebbe far salire i prezzi per i clienti, in particolare nell’Europa meridionale – ha affermato la Commissione. ‘Tra questi clienti ci sono numerose aziende, molte delle quali sono piccole-medie imprese (PMI)’. Esse operano in settori che vanno dalle costruzioni ad auto, elettrodomestici, condutture ecc. Molte tra loro competono con prodotti importati nello Spazio Economico Europeo o esportano i loro prodotti dall’Europa competendo sul mercato globale’ -ha affermato la Commissione.

Le concessioni fatte da AM il mese scorso non sono riuscite a rispondere ai timori – ha aggiunto – senza ulteriori spiegazioni. ‘L’acciaio è un fattore produttivo cruciale per la produzione di molti beni che usiamo nella vita di tutti i giorni e le industrie che usano l’acciaio impiegano più di 30 milioni di persone in Europa. Queste industrie europee hanno necessità di accedere all’acciaio a prezzi competitivi per poter competere nel mercato globale. Per questo stiamo indagando con attenzione l’impatto sulla competitività nel mercato dell’acciaio dei piani di acquisizione di ILVA da parte di AM’ – ha detto Margrethe Vestager, Commissaria responsabile delle politiche europee sulla competitività.

AM ha dichiarato che ‘continuerà a lavorare in stretta collaborazione e con spirito costruttivo con la Commissione Europea per spiegare le dinamiche dell’industria siderurgica, la ratio dell’acquisizione proposta e i benefici che essa recherà alla produzione, ai clienti, all’ambiente e all’economia locale’.

Secondo la banca d’investimenti Jefferies l’accordo potrebbe portare al ‘più grande rischio antitrust nel settore dell’acciaio zincato di qualità’. AM controlla il 38% di questo mercato in Europa, in società con Marcegaglia (6%) e ILVA (8%). Di conseguenza ‘la Commissione Europea sembra giustamente preoccupata che una fusione Mittal-Marcegaglia-ILVA darebbe al gruppo  una quota di controllo del 52% dell’offerta di acciaio zincato (prendendo in considerazione la quota di importazioni) e il 60% della produzione interna’ – ha affermato la banca.

Molte voci provenienti dal mercato dei rotoli (coil) salutano favorevolmente la fusione, perché pensano che porterà più stabilità ai prezzi di produzione e nel mercato al dettaglio. D’altra parte alcuni sono preoccupati che ciò renda più difficile ai distributori e ai trasformatori procurarsi materia prima competitiva, in particolare per la riduzione dell’import da parte di esportatori chiave negli ultimi anni.


Reazione del mercato alla decisione della Commissione Europea su ILVA

La decisione della Commissione Europea di non dare il via libera all’acquisizione di ILVA da parte di ArcelorMittal ha sorpreso i soggetti coinvolti nel mercato dei rotoli, hanno dichiarato questi ultimi a S&P Global Platts.

‘Ciò che è accaduto non è positivo … il fatto che ci vorrà più tempo per trovare una soluzione non è positivo per l’ILVA, poiché non è bene che ci sia incertezza negli affari e in un’azienda. Capiamo che è una situazione complessa che va aooroofondita, ma speriamo che la Commissione trovi rapidamente una soluzione’ ci ha detto Antonio Gozzi, presidente di Federacciai.

Gozzi ha dichiarato che pensava che l’accordo sarebbe stato approvato il giorno di scadenza della prima fase e che AM avrebbe avuto dei colloqui preparatori con l’Autorità antitrust. ‘Tenuto conto delle dimensioni della fusione, la più grande negli ultimi 11 anni, capiamo che la Commissione Europea voglia più tempo’ – ha dichiarato.

Seth Rosenfeld, analista della banca d’investimenti Jefferies, ha affermato che è il momento opportuno’ per vendere asset, vista la crescita dei prezzi dei metalli a uso industriale e che ci sarebbero compratori impazienti di comprare gli asset che ad AM potrebbe essere chiesto di vendere per spianare la strada all’accordo, dal momento che i concorrenti sembra stiano acquisendo quote di mercato nel settore dei prodotti di qualità derivati dall’acciaio.

Alcune fonti si dicono deluse dalla decisione della Commissione, poiché si aspettavano un mercato ‘più disciplinato’ e – fanno sapere – mentre alcuni pensano che ciò procurerà affari ai venditori, i compratori potrebbero non voler comprare grandi quantità dall’ILVA, vista l’incertezza della situazione.

Jefferies parla in un rapporto di ‘massimo rischio antitrust’ nel settore dell’acciaio zincato, considerate le quote di mercato di Mittal (38%), Marcegaglia (6%) e ILVA /8%). Marcegaglia infatti è socia della cordata AMInvestco che ha presentato l’offerta per ILVA.

Ha aggiunto che separare la capacità produttiva di Marcegaglia (1,8 milioni di metri l’anno) da quella di ILVA (2,6 milioni) potrebbe bastare a soddisfare l’Autorità sulla concorrenza.

Voci di mercato ipotizzano che AM abbia preso in considerazione la possibilità di vendere la linea di produzione di Piombino per agevolare l’operazione (il sito ha tre linee, di cui due in funzione per un complesso di 600mila metri l’anno, dei quali 230-300mila vengono trasformati in fogli a rivestimento organico.

Qualcuno riferisce che il fondo pubblico Cassa Depositi e Prestito potrebbe sostituire Marcegaglia nel consorzio, cosa che in qualche misura potrebbe alleviare le preoccupazioni della Commissione. 


PENSIONI L’età pensionabile in Italia è così alta?

Secondo i dettami della Legge Fornero, l’aumento dell’aspettativa di vita accertato dall’INPS nel suo ultimo rapporto determinerà un aumento dell’età pensionabile: da 67 anni e 6 mesi per tutti (uomini e donne) nel 2018 e 67 anni nel 2019. Spesso si dice che ciò è dovuto al fatto che in Italia si va in pensione troppo presto. In uno studio della UIL si dimostra che in realtà l’età pensionabile in Italia è tra le più alte in Europa e nell’OCSE. 


CRONACA Molestie sessuali nel cinema. Due interventi dagli USA

DOCUMENTO 1: Kathryn Cramer Brownell, Washington Post, 13 ottobre 2017

Harvey Weinstein ha messo a nudo la vera politica di Hollywood: sessista e sfruttatrice, non liberale

Hollywood dà milioni di dollari ai Democratici, ma il suo liberalismo è solo di facciata

Kathryn Cramer Brownell, è redattrice di Made by History,è assistente di Storia alla  Purdue University e autrice di Showbiz Politics: Hollywood in American Political Life.

Lo scandalo su Harvey Weinstein rivela i limiti del liberalismo di Hollywood

Le accuse di molestie e abusi sessuali al principale magnate del cinema hollywoodiano hanno scosso sia il mondo dello spettacolo che quello della politica. Come importante raccoglitore di fondi del Partito Democratico e sostenitore di cause che vanno dal controllo sulla vendita delle armi all’universalità dell’assistenza sanitaria, Harvey Weinstein è stato una figura chiave nel rendere Hollywood una potente fonte di finanziamenti alla sinistra.

E proprio per questo i Conservatori hanno accusato i suoi ex beneficiari politici, in particolare Barack Obama e Hillary Clinton, di aver aspettato 5 giorni per condannare le sue azioni. Hanno accusato quei liberali di aver applicato due pesi e due misure: campioni della difesa dei diritti delle donne (e delle critiche al sessismo del presidente Trump) piombati nel silenzio di fronte a un predatore sessuale perché era uno dei loro.

Questo incidente gira il coltello nella piaga che i Conservatori hanno aperto con la loro narrazione di successo sull’attivismo politico di Hollywood. Tuttabia, se la destra può denunciare Hollywood come un’enclave della sinistra, in realtà lo scandalo Weinstein rivela che l’industria dello spettacolo non è il bastione del liberalismo che i più si immaginano.

Anzi, rivela come il liberalismo di Hollywood sia spesso solo di facciata. Certo, Meryl Streep eGeorge Clooney hanno usato il loro potere di star del cinema per inveire contro il Presidente Trump e lo stesso Weinstein è stato un importante alleato dei liberali negli ultimi 20 anni. Ma per i suoi sostenitori politici di sinistra Hollywood rimane, in sostanza, un business diretto in modo preponderante da maschi bianchi. Ed è stato nell’ambito di questa cultura dominata dai maschi e dal denaro che Donald Trump ha costruito la propria celebrità. E poi, proprio come Weinstein, ha creduto che la sua condizione di star gli consentisse di conquistare sessualmente qualunque donna desiderasse.

Nè d’altra parteWeinstein e Trump sono prodotti di una nuova cultura hollywoodiana. Le accuse a Weinstein fanno parte di una lunga storia di sfruttamento delle donne e delle minoranze nell’industria dello spettacolo. Che troppo spesso le ha viste ostaggio dei capricci di qualche potente magnate degli studios cinematografici, abituato a usare la propria posizione di forza sulle celebrità hollywoodiane per accumulare potere, ricchezza e conquiste. In realtà l’unica novità è che Weinstein è ruzzolato giù dal suo rispettato piedistallo a causa di suoi misfatti.

Sin dagli albori il fascino e le aspettative di fama promesse da Hollywood si sono combinate con una realtà di oppressione lavorativa, in particolare alimentando preoccupazioni circa il trattamento potenzialmente pericoloso delle donne. Negli anni ’20 i riformatori progressisti temevano che la celebrazione della gioventù e della bellezza sul grande schermo minacciasse di corrompere moralmente i bambini e attirasse giovani donne sui marciapiedi di Los Angeles.

Sebbene tali pericoli venissero sovrastimati le aspettative di fama effettivamente attirarono verso Ovest aspiranti attrici e attori, attratti dalle luccicanti narrazioni confezionate da una potente industria delle pubbliche relazioni sviluppatasi all’interno del business cinematografico. E dalla possibilità di ottenere il successo dalla sera alla mattina, come accadde a Dorothy Lamour, ex addetta agli ascensori in un grande magazzino di Chicago, e Frances Farmer, maschera in un teatro a Seattle, entrambe emerse dalle tenebre (e da lavori umili) dopo aver colpito lo sguardo dei direttori di casting. Grazie a una nuova filosofia, che considerava gioventù, bellezza e celebrità superiori ai tradizionali valori vittoriani della forza di carattere, della coscienziosità e della pazienza, questi esempi di rapida ascesa ‘da cameriera a regina del cinema’ ispirarono a milioni di giovani donne il sogno di un’improvvisa fama e ricchezza.

L’industria dei film ha fatto balenare in modo perverso la possibilità di diventare indipendenti agli occhi delle giovani donne, ma in cambio ha chiesto loro di essere dipendenti dagli uomini che dirigevano gli studios, le assumevano e gestivano i casting.

I riformisti piccolo-borghesi erano intimoriti dall’altra faccia della medaglia – sfruttamento, droga, e promiscuità sessuale – che accompagnavano tali aspettative. Storie di festini ad alto contenuto di sesso, in cui giovani starlet perdevano la vita, come il noto party organizzato a San Francisco dal comico Fatty Arbuckle nel 1921, generarono un panico moralistico attorno alla crescente popolarità della nuova industria. Queste controversie furono alla base dei primi tentativi di ‘ripulire’ l’immagine di Hollywood mediante una campagna di autocensura.

Preoccupati dal fatto che la pubblicità negativa penalizzasse gli incassi, magnati come Jack Warner e Louis B. Mayer cominciarono a imporre ai propri feudi cinematografici un rigido controllo sulle produzioni e contratti che imponevano regole di comportamento alle star. D’altra parte però quei personaggii erano diventati portinai del mondo della celebrità grazie alla propria abilità nel creare nuovi idoli per generare successi al botteghino, che si traducevano poi in denaro e potere. Di conseguenza i divani dei loro uffici frequentemente si trasformavano in luoghi di scambio tra favori sessuali e carriera.

Ma lo sfruttamento non era solo di carattere sessuale. Il sistema degli studios aveva creato un diffuso sistema di sfruttamento del lavoro, in grado di costringere gli attori a giornate estenuanti di lavoro con lunghe scritture e condizioni di lavoro opprimenti. Mentre le ricche stelle del cinema dominavano la percezione pubblica di Hollywood , per la maggioranza dei suoi dipendenti la realtà lavorativa era caratterizzata da paghe basse, assistenza sociale minima, e forti pressioni.

E’ per questo che in questa industria la sindacalizzazione è stata così importante: un fatto celebrato persino da Ronald Reagan nella sua autobiografia del 1964, Where’s the Rest of Me? Nel 1933, attori famosi come Robert Montgomery, Will Rogers, Bette Davis e Joan Crawford fondarono la Screen Actors Guild (SAG) per proteggere le star cinematografiche, ma anche attori sconosciuti, dai tentativi degli studios di abbassare le retribuzioni e licenziare a loro piacimento. Anche oggi gli attori che lottano per difendere i propri diritti sono straordinariamente più di quelli che hanno retribuzioni a 7 cifre.

In un mondo con tanti in lotta per la sopravvivenza, chi sono stati i vincitori? I top manager maschi. Il fascino velenoso e il potere della fama che essi hanno aiutato a creare ha alimentato il potere economico di Hollywood. Il fascino erotico, la bellezza e la gioventù degli attori può aver mandato in fibrillazione il pubblico nei teatri di tutto il mondo, ma sono stati i capi degli studios a mantenere l’ultima voce in capitolo nella definizione di chi è cosa fosse sexy.

E certo questo crescente potere economico e la loro astuzia pubblicitaria si sono tradotti in opportunità politiche per molti di quei magnati. Dopo tutto gli aspiranti politici hanno visto quanto questo denaro e questa abilità nel marketing possano aiutarli a vendere i propri messaggi propagandistici. Ma alla fine della giornata questi manager si sono preoccupati molto meno di rimanere fedeli  al proprio colore politico piuttosto che al verde dell’onnipotente dollaro. Quando sono stati costretti a scegliere tra fare soldi e la politica, i capi degli studios hanno scelto i soldi. La Warner ha abbandonato rapidamente la sua lealtà al New Deal quando Harry Truman ha firmato trattati commerciali che colpivano I loro profitti. E astuti politici come Richard Nixon sono andati in cerca di incentivi economici per il cinema – dal taglio delle tasse agli accordi sul diritto d’autore – che si traducessero in un sostegno politico e finanziario da parte di Hollywood.

Perciò non sorprende che Weinstein potesse regolarmente finanziare con migliaia di dollari cause e candidati socialprogressisti e contemporaneamente usare la propria ricchezza e il proprio potere per sfruttare le donne.  Fattore centrale nella struttura economica che ha costruito con Miramax e la Weinstein Company è la cultura della celebrità che pone la fama al primo posto e che permette a star come Trump, Bill Crosby e Bill O’Reilly e a creatori di star come Roger Ailes e lo stesso Weinstein di sentirsi autorizzati ad agguantare le donne per la f…a. Sanno che le loro vittime rimarranno in silenzio per paura che questi uomini potenti possano porre fine alle loro carriere.

Il licenziamento di Weinstein, come quello di O’Reilly e Ailes, indica una crescente intolleranza verso la violenza sulle donne. Ma la politica non è alla testa di questo mutamento. Ancora una volta ciascuno difende I propri interessi. I manager delle compagnie cinematografiche riconoscono che per proteggere I propri bilanci bisogna rispondere all’opinione pubblica che chiede loro di condannare le molestie sessuali.

Per fare di Hollywood un vero bastione del liberalismo ci vorrebbe qualcosa di più che le dichiarazioni di disapprovazione indirizzate a Weinstein da qualche attore di primo piano o persino di una censura carica di significato politico all’Academy Awards. Servirebbe piuttosto che queste star e il pubblico domandassero mutamenti significativi nella struttura istituzionale degli studios, per portare a ruoli di comando donne e minoranze sul grande schermo e attorno a esso, riconoscendo paghe uguali a parità di lavoro e combattendo in modo drastico le molestie sessuali prima che facciano notizia.

Condizione di questo cambiamento, in ogni caso, sarebbe che i dirigenti che hanno accumulato tanto potere economico e culturale ne sacrificassero una parte in nome di un’azione di riforma e di un’idea forse troppo fantasiosa persino per una città che vive di sogni.


DOCUMENTO 2: Jane Slaughter, 24 ottobre 2017, Labor Notes

Per le lavoratrici a basso reddito non ci sono i divanetti dei produttori, ma molte molestie sessuali

Le molestie sessuali non capitano solo a donne glamour in industrie glamour. Poiché il fenomeno è legato al potere, non al sesso, non c’è da stupirsi che le lavoratrici a basso reddito che fanno lavori miseri lo sperimentino massicciamente.

La Commissione per le Pari Opportunità Lavorative riferisce che l’industria della ristorazione è la maggior fonte di denunce di molestie. Un sondaggio nazionale che ha coinvolto 4300 lavoratrici del settore realizzato dall’organizzazione sindacale Restaurant Opportunities Centers United (ROC), più di una su 10 ha dichiarato che lei o le sue colleghe hanno avuto esperienze di molestie sessuali. L’organizzazione afferma che persino questa terribile percentuale probabilmente sottostima il fenomeno.

Il ROC ha esaminato 4 anni di conciliazioni e di sentenze della Commissione Pari Opportunità nell’industria della ristorazione, scoprendo che Ie cause sono state depositate in primo luogo contro famosi gruppi, tra cui McDonald’s (con un 16% delle cause il peggiore in classifica), KFC, Sonic, IHOP, Applebee’s, Cracker Barrel, Ruby Tuesday, and Denny’s.

La situazione più comune è che le lavoratrici subiscano abusi e molestie quotidianamente e subiscano ritorsioni quando reagiscono.

La collaboratrice di Labor Notes’ Jenny Brown, che al momento lavora per National Women’s Liberation, sottolinea che le ‘vergognose statistiche’ per le lavoratici della ristorazione sono legate al modo in cui vengono pagate, in particolare alle mance.

Il ROC osserva, in un report del 2014, che ‘una forza-lavoro in maggioranza femminile deve accontentare e ingraziarsi i clienti per sopravvivere’. Gli uomini ne approfittano facendo domande, assumendo atteggiamenti molestatori, allungando le mani, fino allo stalking vero e proprio. ‘Sfortunatamente è diventata una consuetudine sociale e tutti noi la accettiamo, pur odiandola’ – ha detto a ROC una barista.

I manager, quando le lavoratrici si lamentano, tendono a parteggiare per i clienti. Una cameriera riferisce le parole del suo capo: ‘Beh, quelle persone pagano un sacco di soldi. Ci vuol tanto a sorridere un po’, a essere un po’ più amichevoli nei loro confronti?

Nei campi

Una lavoratrice agricola descrive questo tipo di situazione come normale, analogamente a quanto avviene nei ristoranti: ‘O glielo permetti o ti licenziano’. Uno studio del 2010 sulle lavoratrici agricole ha scoperto che l’80% ha sperimentato molestie sessuali nel posto di lavoro.

Queste lavoratrici sono particolarmente vulnerabili quando vengono assunte e pagate da capisquadra/caporali, che in questo modo esercitano uno stretto controllo sulle loro vite.

I lavori di pulizia rappresentano un altro settore a basso reddito interessato al fenomeno, come ha scritto quest’anno Sonia Singh. Sono prevalentemente donne, che spesso lavorano a tarda notte in luoghi isolati. Nel 2015 il documentario dell’emittente PBS, Rape on the Night Shift (Stupri nel turno di notte),  ha denunciato quanto la violenza sessuale nei confronti delle lavoratrici del settore sia diffusa e poco documentata (il video in inglese è su Youtube; NdT).

Nel maggio 2016 il sindacato è riuscito a concludere un accordo sindacale in California, che prevede un addestramento contro le molestie per capi e lavoratrici e garantisce a queste ultime la possibilità di fare reclamo ai manager contro i propri responsabili diretti.

Il sindacato ha fatto un esperimento, utilizzando durante l’addestramento il format di una soap opera, che i partecipanti potevano interrompere per discutere della situazione che avevano appena visto sullo schermo. Inoltre ha collaborato con gli organi legislativi per la promulgazione di una legge dello Stato, il Property Services Worker Protection Act, e ha ottenuto che alcuni sindaci e padroncini sindacalizzati delle ditte d’appalto sostenessero e finanziassero manifesti  ‘End Rape on the Night Shift’ (Basta stupri nel turno di notte) in alcuni luoghi strategici.

E quando non era ancora chiaro se il governatore Jerry Brown avrebbe firmato la legge i delegati sindacali hanno deciso di organizzare una manifestazione.

12 vittime di violenza sessuale nel posto di lavoro hanno iniziato uno sciopero della fame davanti al Palazzo del Governo. Molte di queste donne hanno letto lettere aperte indirizzate ai loro aggressori. Molte non avevano mai condiviso questa loro esperienza prima della campagna.

Dopo 5 giorni di digiuno Brown ha firmato la legge, che entrerà in vigore nel 2019 e obbliga le aziende nel settore delle pulizie e della sicurezza a sottoporre dipendenti e dirigenti a un traning antiviolenza sessuale.

Nelle stanze d’albergo

Le lavoratrici forse più esposte ad aggressioni però sono quelle che fanno le pulizie negli alberghi. All’apparenza la scusa degli aggressori maschi è che se c’è una donna in camera da letto deve essere a disposizione. ‘I lavoratori riferiscono che gli ospiti maschi – ha scritto Jenny Brown – si mettono in mostra, cercano di comprare servizi sessuali, le afferrano e le palpeggiano e, in alcuni casi, cercano di violentarle’. ‘Spesso offrono denaro per essere massaggiati, ma non vogliono massaggi, bensì qualcos’altro’ dice Elizabeth Moreno, lavoratrice 18enne di Chicago. Quando si effettuano consegne in camera capita che gli ospiti maschi aprano la porta nudi – aggiunge.

Il fenomeno è così diffuso che le lavoratrici degli alberghi alle Hawai e a San Francisco si sono opposte al tentativo dei loro manager di far indossare loro la gonna, sostenendo che quel tipo di uniforme le esporrebbe ai palpeggiamenti, in un lavoro che obbliga a chinarsi sui letti, le vasche da bagno e i pavimenti.

Al New York Sofitel, dove Dominique Strauss-Kahn, capo del Fondo Monetario Internazionale, nel 2011 ha aggredito una cameriera in una stanza da 3mila dollari a notte, secondo un rappresentante sindacale la direzione ha cambiato la divisa sostituendo la gonna con pantaloni e giacca.

La sicurezza delle addette alle stanze poi è compromessa dai tagli al personale, che lasciano le lavoratrici in una situazione di isolamento durante il lavoro. Alcune lavoratrici hawaiane addette al cosiddetto turn down duty, che implica entrare in stanza di sera per tirare le tende e sistemare le coperte, sono solite lavorare in coppia. Ora gli alberghi chiedono loro di lavorare da sole e loro rispondono di sentirsi insicure.

A Chicago le lavoratrici hanno lottato per il diritto di bloccare la porta della stanza col carrello di servizio mentre lavorano, in modo da tenerla aperta. Ma alcuni manager affermano che ‘non è professionale’ e potrebbe permettere il furto di oggetti nelle stanze.

‘Quando lasciamo scorrere l’acqua non sentiamo l’ospite entrare in camera’ – dice Elizabeth Moreno. Nel suo albergo un supervisore controlla la pulizia della stanza se l’ospite è presente.

I manager ridono

Dopo l’incidente di Strauss-Kahn gli aderenti del sindacato degli alberghi hanno tenuto discorsi in 8 città. ‘Questi ospiti pensano di poterci usare per tutto ciò che desiderano, perché non abbiamo il potere o il denaro che hanno loro’- dice Yazmin Vazquez, una cameriera d’albergo di Chicago.

A una lavoratrice trentenne di Indianapolis, fattorina nel turno di notte, è capitato di portare lenzuola e shampoo a clienti che lo avevano chiesto e afferma che due volte la settimana le capita di affrontare uomini che si presentano alla porta nudi, le fanno avances o peggio.  I manager lo sanno – racconta – ma perlopiù ne ridono.

Andria Babbington, lavoratrice in un albergo di Toronto, ha raccontato che i manager  si sono messi a ridere anche quando si è lamentata di un cliente nudo che le aveva chiesto di rimboccarle le coperte.

‘Gli hotel sono conniventi con la cultura del silenzio ha affermato Annemarie Strassel del sindacato UNITE HERE. ‘La premessa è che il cliente ha sempre ragione’.

Se si aggiunge il desiderio dei direttori di compiacere gli ospiti e di nascondere sotto il tappeto fughe di notizie in merito a eventuali incidenti si capisce come mai molte lavoratrici si sentano sotto pressione, costrette a considerare parte del loro lavoro il sopportare offese e aggressioni.

Se le lavoratrici fanno rapporto a un cliente la polizia di rado viene chiamata. ‘Possiamo dire ciò che vogliamo, ma la direzione ha sempre rispetto degli ospiti’ dice Hortensia Valera al comizio tenuto a Chicago.

La polizia ha arrestato Strauss-Kahn (sebbene la accuse in seguito siano state lasciate cadere) e, poco dopo il banchiere egiziano Mahmoud Abdel-Salam Omar, accusato da una cameriera di un’analoga aggressione. Entrambe le cameriere newyorkesi erano iscritte al sindacato.

Proprio come sta accadendo oggi col flusso continuo di notizie sul magnate del cinema Harvey Weinstein, la pubblicità allora ha reso le lavoratrici più libere di parlare di simili incidenti.

E le direzioni di entrambe gli hotel hanno detto che forniranno alle lavoratrici dei segnalatori di emergenza.

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