Rivoluzione d’Ottobre e controrivoluzione stalinista

1924-2024: 100 anni dalla morte di Lenin

PIERO ACQUILINO, 21 gennaio 2024

Sono trascorsi cento anni dalla morte di Lenin, avvenuta il 21 gennaio del 1924, e questa può essere un’occasione per riflettere su un’intera vicenda storica che si è chiusa: la Rivoluzione d’Ottobre, l’affermazione di Stalin e l’ascesa e il crollo dell’Unione sovietica.

È una riflessione necessaria, in una fase in cui la storia sembra abbia fatto un passo indietro: oggi i soldati muoiono nelle trincee come nella Prima guerra mondiale, e i civili muoiono sotto le bombe come nella Seconda.

Questo anniversario non è passato inosservato sui mezzi d’informazione. Articoli e trasmissioni di vario genere si svolgono seguendo quasi sempre lo stesso filo conduttore: le rivoluzioni finiscono in tragedia divorando i propri figli e, in fondo, quello capitalista è pur sempre il miglior mondo possibile in cui vivere.

Invece noi sosteniamo che Lenin e Stalin hanno impersonato in questa vicenda la più grande speranza e la più grande tragedia della storia del movimento operaio del Ventesimo secolo: la rivoluzione e la controrivoluzione.

La Rivoluzione d’Ottobre

Nel 1917 l’impero zarista era oramai da tre anni impegnato nella Prima guerra mondiale con costi umani e materiali altissimi. Al suo interno coesistevano alcune isole d’industria moderna intorno alle grandi città e ai bacini minerari, circondate da un mare di agricoltura latifondista e pastorizia. Il tutto sotto la cappa di una monarchia autocratica, anacronistica e inefficiente. Il conflitto unì le istanze socialiste del movimento operaio e la fame di terra dei contadini con l’esigenza di pace di entrambe le classi, portando alla Rivoluzione d’Ottobre attuata dai soviet sotto la guida dei bolscevichi.

Date le condizioni di arretratezza di buona parte dell’impero zarista, l’obiettivo del nuovo governo rivoluzionario non era quello di costruire il “socialismo in un paese solo”, celebre formula che sarà adottata in seguito da Stalin. Si trattava invece di rompere “l’anello più debole della catena” di paesi imperialisti (Lenin) facendo il primo passo verso la rivoluzione proletaria internazionale. Quindi occorreva il prima possibile che il processo rivoluzionario si estendesse verso Occidente e soprattutto in Germania, che, dato il suo sviluppo economico e sociale, rappresentava la chiave di volta di tutta la situazione. Per cogliere questo obiettivo erano necessari: un partito comunista mondiale e mantenere il potere in Russia il più a lungo possibile per sostenere la rivoluzione in Occidente e nei paesi coloniali.

La strategia dei bolscevichi si sviluppò quindi su due direttrici fondamentali: sul piano mondiale, costruendo l’Internazionale comunista, attraverso l’aggregazione delle forze rivoluzionarie che la crisi bellica aveva fatto emergere in tutti i paesi; su quello interno, difendendo la sopravvivenza del paese e del governo rivoluzionario attraverso la salvaguardia dell’alleanza tra operai e contadini basata sulla pace e sulla distribuzione della terra, gettando così le basi di uno sviluppo industriale in grado di creare le necessarie infrastrutture e modernizzare l’agricoltura.

La sconfitta della rivoluzione internazionale

Nel quadro postbellico i tempi però erano strettissimi: nonostante le forti tensioni sociali in tutti i paesi, la fine della guerra, soprattutto tra i vincitori, bloccò lo sviluppo di forti movimenti rivoluzionari e, malgrado la generale radicalizzazione del movimento operaio, in nessun paese era presente un partito con una chiara prospettiva strategica come quella che aveva avuto il partito bolscevico nella lotta per la conquista del potere.

Inoltre, benché il processo di costruzione di un’internazionale rivoluzionaria fosse iniziato nel pieno della guerra con le conferenze di Zimmerwald nel 1915 e di Kienthal nel 1916, nella sinistra che si era schierata contro la guerra le resistenze a una rottura netta con il passato furono molte e l’Internazionale comunista riuscì a costituirsi solo nel marzo 1919, quando l’ondata rivoluzionaria si stava già ritirando. Dal canto loro le potenze imperialiste dell’Intesa, di fronte al pericolo rivoluzionario, che per loro era ben maggiore di quello rappresentato dagli imperi centrali, corsero subito ai ripari, intervenendo nella guerra civile, isolando la Russia attraverso il blocco economico e costituendo una cintura di paesi con governi reazionari.

Infine, sullo scenario europeo si affacciò un nuovo fenomeno che sarà determinante nella storia dei decenni successivi: per combattere i movimenti rivoluzionari, gli apparati statali repressivi iniziarono a essere affiancati, e a volte sostituiti, da formazioni paramilitari extralegali che, sotto varie denominazioni (Freikorps, guardie bianche, fasci di combattimento, ecc.) saranno spesso risolutivi nella repressione controrivoluzionaria e che rappresenteranno gli antesignani dei movimenti fascista e nazista.

In questa pesantissima situazione le sconfitte per il movimento rivoluzionario non tarderanno ad arrivare: la prima nell’inverno 1917, a pochi mesi dalla Rivoluzione d’Ottobre, quando il governo socialista finlandese fu abbattuto dalle guardie bianche appoggiate da Svezia e Germania e con una successiva repressione che causò decine di migliaia di vittime tra i lavoratori; nel 1919 la Repubblica dei consigli ungherese resistette appena 133 giorni, prima di essere schiacciata anch’essa dal terrore bianco e dagli eserciti dell’Intesa; nell’agosto dell’anno successivo, mentre era in corso il II Congresso dell’Internazionale comunista, l’Armata rossa fu bloccata alle porte di Varsavia dall’esercito nazionalista di Piłsudski, che aveva attaccato la Russia per dar vita alla “Grande Polonia”. Anche in Italia, l’unico dei paesi vincitori dove si sviluppò un movimento rivoluzionario di massa, al “biennio rosso” seguì la rapida ascesa del fascismo. Ma la sconfitta più importante avvenne in Germania: nell’inverno 1918-1919, la repressione dell’insurrezione spartachista da parte del governo socialdemocratico, culminò con gli assassinî di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, iniziando una serie di tentativi rivoluzionari sempre sconfitti, fino alla definitiva vittoria di Hitler.

La difficilissima situazione in Russia

La necessità di uscire dal conflitto mondiale obbligò il governo rivoluzionario russo a firmare con gli Imperi centrali il trattato capestro di Brest-Litovsk (3 marzo 1918). Le condizioni accettate furono terribili: la Russia perdette territori nei quali abitava il 32% della sua popolazione, il 75% della produzione del carbone e del ferro, il 32% della produzione agricola e circa 5.000 fabbriche. Lenin condusse una durissima battaglia nel governo e nel partito per far approvare questo accordo che, per quanto vessatorio, permetteva al nuovo potere sovietico di ottenere “tempo in cambio di spazio” per organizzarsi. Ma le conseguenze politiche interne furono drammatiche: il dissenso nel partito bolscevico fu molto forte, ma con i socialisti rivoluzionari di sinistra, che partecipavano al governo, la rottura fu completa. Gli SR uscirono dal governo proclamando Lenin un traditore, assassinarono l’ambasciatore tedesco, tentarono d’insorgere contro il governo sovietico e organizzarono un attentato contro Lenin.

Intanto infuriava la guerra civile contro le armate bianche e i corpi di spedizione stranieri, con il territorio controllato dal governo rivoluzionario ridotto, nel 1919, alla sola area centrale della Russia europea intorno a Mosca. Una guerra che finirà solo nell’ottobre 1922 con la vittoria sui bianchi e sugli eserciti dei paesi imperialisti, ma ottenuta pagando un prezzo altissimo: l’Armata rossa perdette un milione di uomini e, in totale morirono tra i 3 e i 7 milioni di persone che si aggiunsero agli oltre 3,5 milioni di caduti nella Prima guerra mondiale. I quadri del partito furono decimati dalla guerra, i soviet ridotti ad un involucro semivuoto e le conseguenze sull’economia furono altrettanto pesanti: la produttività dell’industria si ridusse di cinque volte e quella agricola del 40%. Una situazione che fu la causa della carestia che, nel 1921-1922 devastò intere regioni: su 175 milioni di abitanti i morti furono tra i 2 e i 5 milioni. L’evento che divenne il simbolo di questa fase fu, nel marzo 1921, l’insurrezione dei marinai della fortezza di Kronstadt, da sempre considerata un baluardo della rivoluzione, repressa nel sangue dall’Armata rossa. Un segnale che il Consiglio dei commissari del popolo non poteva ignorare.

La NEP

Negli stessi giorni dell’insurrezione di Kronstad si svolse il X Congresso del partito, che impose una svolta alla situazione abbandonando il “comunismo di guerra” e adottando con un relativo successo la Nuova Politica Economica (NEP), per favorire la ripresa delle campagne con concessioni all’iniziativa privata dei contadini.

Due anni dopo, in uno dei suoi ultimi scritti, Lenin sintetizzerà efficacemente il problema centrale per il governo rivoluzionario sovietico: “saremo noi in grado di resistere con la nostra piccola e piccolissima produzione contadina, nelle nostre condizioni disastrose, fino a che i paesi capitalistici dell’Europa occidentale non avranno compiuto il loro sviluppo verso il socialismo?” La risposta che si dà è chiara: “… dobbiamo essere estremamente cauti per poter conservare il nostro potere operaio, per poter mantenere sotto la sua autorità e sotto la sua guida i nostri piccoli e piccolissimi contadini.

Le ultime battaglie di Lenin

In questa difficile situazione Lenin si ammalò: il 25 maggio 1922 fu colpito dal primo di una serie di ictus; il 6 marzo 1923 non fu più in grado di comunicare e il 21 gennaio 1924 sopraggiunge la morte.

Con grandi difficoltà per collegarsi con l’esterno, sia per gli effetti della malattia, sia per gli ostacoli posti da un apparato di partito oramai controllato da Stalin, impegnò le sue ultime forze in quella che lo storico Moshe Levin definì la sua ultima battaglia.

Prese di mira le burocrazie: sia quella ereditata dallo zarismo, di leggendaria dimensione e inefficienza, sia quella del nascente apparato sovietico. A questo riguardo è significativo l’attacco frontale che sferrò contro il Commissariato del popolo per l’Ispezione operaia e contadina diretto da Stalin, creato proprio per contrastare il processo di burocratizzazione: “Diciamolo pure: il Commissariato del popolo per l’Ispezione operaia e contadina non gode ora di nessun prestigio. Tutti sanno che non esistono organismi peggio organizzati dell’Ispezione operaia e contadina e che, nelle condizioni attuali, è inutile pretendere qualcosa da questo Commissariato del popolo.

Alla fine del 1921 una parte del gruppo dirigente bolscevico, compresi Stalin e Bucharin, espresse un orientamento favorevole all’abolizione o, almeno, all’attenuazione del monopolio del commercio estero e, in un primo momento, riuscì a farla approvare. Lenin aveva sostenuto con forza l’adozione della NEP, ma, proprio per questo, era cosciente che una classe contadina, libera di imporre i propri prezzi sul mercato interno e di commerciare con l’estero avrebbe rappresentato un pericolo mortale per il potere sovietico. L’abolizione del monopolio avrebbe allargato, in modo insostenibile, quella forbice tra prezzi e salari che stava già rappresentando un serio problema nei rapporti tra operai e contadini. Decise così di organizzare una battaglia politica per la revisione di quella decisione. Incontrò Trockij e gli propose di far causa comune. Il 18 dicembre il CC annullò la precedente delibera e Lenin scrisse a Trockij: “A quanto pare, compagno Trockij, siamo riusciti a prendere la posizione senza colpo ferire, con una semplice manovra. Vi propongo di non fermarci e di continuare l’offensiva

Nell’intricatissimo mosaico di nazionalità che popolavano il territorio della Russia sovietica e con la pesante eredità dello zarismo che dominava utilizzando quello che Lenin definì lo “sciovinismo grande russo” cioè il nazionalismo del gruppo etnico predominante, il Consiglio dei commissari del popolo dimostrò sin dall’inizio molta cautela nel garantire forme di autonomia e autodeterminazione alle repubbliche che aderivano alla Federazione sovietica. Dopo aver subito il primo attacco della malattia che lo porterà alla morte, si rese conto che la gestione della Federazione transcaucasica da parte di Stalin, che era anche Commissario del popolo alle nazionalità, e del suo proconsole in loco Sergo Ordzonikidze, andava in tutt’altra direzione e iniziò una dura battaglia politica. Il 6 ottobre scrisse a Kamenev: “Compagno Kamenev! Dichiaro guerra (e non una guerricciola, ma una lotta per la vita e per la morte) allo sciovinismo grande russo. Non appena mi sarò liberato di questo maledetto dente, lo assalirò con tutti i miei denti sani. Bisogna assolutamente che il CEC federale sia presieduto a turno da: un russo, un ucraino, un georgiano, ecc. Assolutamente!” E il 5 marzo 1923, un giorno prima di perdere definitivamente la capacità di comunicare, in una missiva segreta a Trockij: “Vi chiedo insistentemente di assumere la difesa della questione georgiana nel Comitato centrale del partito. Ora è fatta segno di una “persecuzione” da parte di Stalin e di Dzerzinskij, così che non posso fidarmi della loro imparzialità. Purtroppo è vero il contrario! Se voi acconsentite di prenderne la difesa io mi sentirò assai sollevato. Se per qualche ragione voi non potete acconsentirvi, vi prego di restituirmi tutte le carte. Lo considererò come il segno del vostro rifiuto”. La lettera che inviò a Stalin lo stesso giorno aveva un tono ben diverso: “Rispettabilissimo compagno Stalin, vi siete permesso la volgarità di chiamare mia moglie a telefono e d’ingiuriarla. Essa si è dichiarata d’accordo per dimenticare ciò che è stato detto. Tuttavia essa ne informò Zinov’ev e Kamenev. Non ho l’intenzione di dimenticare ciò che è stato fatto contro di me, e va da sé che ciò che è stato fatto a mia moglie lo considero diretto anche contro di me. È per questo che vi domando di decidere se siete disposto a ritirare ciò che avete detto e a presentare le vostre scuse, oppure se preferite rompere le relazioni tra di noi.” E, infine, ai dirigenti georgiani: “…sono con voi con tutto il mio cuore”.

In una serie di note scritte per il Congresso del partito nei giorni a cavallo tra il 1922 e il 1923 e conosciute come il suo “Testamento” traspariva già la sua preoccupazione che i contrasti tra Stalin e Trockij potessero portare a una scissione del partito in una situazione così difficile. Non nominò nessun successore, ma i suoi giudizi sui massimi dirigenti, in primis Trockij e Stalin, sono illuminanti: Trockij “Personalmente egli è forse il più capace tra i membri dell’attuale CC, ma ha anche una eccessiva sicurezza di sé e una tendenza eccessiva a considerare il lato puramente amministrativo dei problemi.” Mentre “Stalin è troppo grossolano, e questo difetto, del tutto tollerabile nell’ambiente e nei rapporti tra noi comunisti, diventa intollerabile nella funzione di segretario generale. Perciò propongo ai compagni di pensare alla maniera di togliere Stalin da questo incarico e di designare a questo posto un altro uomo”.

La lotta nel partito e l’ascesa di Stalin

L’uscita di scena di Lenin e la difficile situazione interna e internazionale acuirono i contrasti interni al partito. Il gruppo dei “vecchi bolscevichi” (Stalin, Kamenev, Bucharin, Zinov’ev) rimproverava e Trockij il suo “non bolscevismo” prima del 1917. Ma, in realtà, a condizionare la discussione erano le spinte delle forze sociali presenti nel paese (apparati dirigenti delle imprese a capitalismo di stato, contadini ricchi, burocrazia statale…), unite all’estrema stanchezza di operai e contadini dopo anni di guerra mondiale e civile, che premevano per una stabilizzazione interna e per l’abbandono della prospettiva rivoluzionaria.

Si sviluppò così un processo controrivoluzionario che trovò in Stalin, impadronitosi, nonostante le indicazioni di Lenin, della struttura del partito, il proprio rappresentante. Sarebbe un errore valutare l’ascesa dello stalinismo solo analizzando le posizioni politiche adottate su questo o quel problema. L’abilità tattica di Stalin fu quella di manovrare costantemente nel gruppo dirigente con alleanze temporanee variabili e posizioni politiche che potevano rovesciarsi in un batter di ciglia. In ciò era aiutato dal fatto che il partito, dopo la morte di Lenin, era stato snaturato dall’ingresso in massa di 240.000 nuovi membri, senza particolare esperienza politica rivoluzionaria ma fedelissimi al Segretario generale.

La discussione politica interna scivolò rapidamente dal confronto, anche aspro, al linciaggio morale attraverso calunnie e falsificazioni che culminerà negli omicidii degli avversari politici travestiti da “processi”. Un esempio? Nel “Breve corso di storia del Partito comunista dell’URSS” redatto nel 1938 sotto la diretta supervisione di Stalin e vero e proprio catechismo per i “comunisti” di tutto il mondo, il sommario del capitolo 4 recita: “I bukhariniani degenerano in politicanti a doppia faccia. I trotskisti a doppia faccia degenerano in una banda di guardie bianche assassini e spie” Un’eredità velenosa che caratterizzerà lo stalinismo russo e internazionale fino alla sua dissoluzione.

L’Internazionale comunista

Il passaggio dalla rivoluzione alla controrivoluzione è chiarissimo se si analizza il capovolgimento del ruolo dell’Internazionale comunista. Nata per essere il partito mondiale della rivoluzione al quale la presa del potere dei bolscevichi in Russia doveva fare da supporto, con Stalin si trasformò in mero strumento del governo di Mosca allineandosi rapidamente a ogni sua scelta, fino ad arrivare nell’agosto 1939 a giustificare il trattato di non aggressione tra l’URSS e la Germania nazista. Riguardo a ciò è illuminante lo scambio di battute tra il dirigente del Partito Comunista d’Italia Amadeo Bordiga e Stalin avvenuto a Mosca durante i lavori del IV Plenum dell’Esecutivo allargato dell’Internazionale Comunista: “Bordiga: Allo scopo di precisare la questione delle prospettive chiedo se il compagno Stalin pensa che lo sviluppo della situazione russa e dei problemi interni del Partito russo è legato allo sviluppo del movimento proletario internazionale. Stalin: Questa domanda non mi è mai stata rivolta. Non avrei mai creduto che un comunista potesse rivolgermela. Dio vi perdoni di averlo fatto.” Di fronte a questa risposta non stupisce che, tornato in Italia, Bordiga prudentemente declinasse tutti gli inviti a ritornare a Mosca.

Una controrivoluzione a tutto campo

Nel paese e nel mondo venne instaurato il culto della personalità: Lenin fu imbalsamato e esposto alla venerazione dei fedeli come un Padre Pio ante litteram; mentre Stalin, assurse al rango di onnisciente semidio. A lui e agli altri dirigenti sovietici suoi sodali, tutti ancora in vita, vennero inoltre intitolate importanti città.

Non ci fu campo della vita politica e sociale che uscì indenne dalla controrivoluzione e quelli che seguono sono solo alcuni esempi. Nel campo della legislazione sociale fu abolito il diritto all’aborto che era stato introdotto dalla legislazione rivoluzionaria. Nell’Armata rossa furono reintrodotti i gradi che erano stati aboliti e sostituiti dalla funzione esercitata. In campo artistico, dopo la libera fioritura di tutte le correnti d’avanguardia, venne imposto il cosiddetto “realismo socialista”, tanto poco realista quanto poco era socialista. Ma il caso più eclatante fu forse quello della scienza dove l’imposizione di una “biologia di Stato” che doveva seguire le teorie genetiche, poi rivelatesi errate, di un tale Lysenko, portò all’affossamento (nel senso letterale del termine) di una delle più promettenti scuole di genetica del mondo e a danni incalcolabili all’agricoltura. Nella vita sociale, l’arbitrio poliziesco, gli arresti, le deportazioni e le condanne a morte portarono a una cappa di terrore, conformismo e sfiducia che durò decenni.

E, infine, con i “processi di Mosca”, dal 1936 iniziò il massacro della vecchia guardia bolscevica. Oramai, anche i superstiti storici di formazione stalinista non negano gli “eccessi” di questi processi e non ne nascondono le falsità, ma imputano il tutto alla durezza della lotta politica, ma è falso. La lotta politica nel partito che vide Stalin vincitore si concluse con la deportazione e l’esilio di Trockij quasi un decennio prima e l’emarginazione di tutti gli oppositori. Nel 1936 i dirigenti bolscevichi che si erano sottomessi a Stalin ed erano stati riammessi nel partito erano oramai lontani dalle leve del potere e dirigevano strutture economiche o industriali periferiche. Si trattava invece di un biglietto da visita che il gruppo dirigente sovietico porgeva alla borghesia imperialista internazionale per dimostrare la sua definitiva rottura con il passato rivoluzionario.

Tutto ciò non rimase confinato all’URSS. L’Internazionale comunista, diretta dal bulgaro Dimitrov e dall’italiano Togliatti, sciolse interi partiti comunisti come quelli polacco e ungherese. I militanti comunisti di tutta Europa rifugiatisi in URSS per sfuggire alla marea montante del nazifascismo, furono deportati e fucilati a migliaia, compresi oltre un centinaio di italiani. Tutti i gruppi dirigenti dell’Internazionale dovevano approvare questo operato e continueranno a farlo anche a guerra finita, quando una nuova ondata di processi farsa investirà i paesi dell’Est Europa passati sotto controllo sovietico. Per la logica imposta da Stalin non c’erano vie d’uscita: o si accettava di essere complici, o si era un nemico da eliminare. Il culmine fu raggiunto nel 1939 quando, per suggellare il già citato accordo tra Hitler e Stalin, circa seicento rifugiati comunisti tedeschi furono prelevati dalle prigioni e dai campi di lavoro sovietici per essere consegnati alla Gestapo e finire nei lager nazisti.

Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, due avvenimenti confermarono l’avvenuto compimento della controrivoluzione: il primo è l’assassinio in Messico nell’agosto 1940 per mano di un agente staliniano di Lev Trockij, l’avversario di Stalin che fino all’ultimo lottò per contrastare questa deriva mortale per la rivoluzione; il secondo è lo scioglimento dell’Internazionale comunista avvenuto a Mosca nel giugno 1943. Dal partito che doveva conquistare il mondo lottando contro gli imperialisti si era giunti al paese che si spartiva il mondo a tavolino con gli imperialisti nelle conferenze interalleate.

Conclusioni

Il 26 dicembre 1991 la bandiera rossa è ammainata dalle torri del Cremlino dopo che l’URSS era stata disciolta qualche tempo prima. Ad eccezione del patetico tentativo di golpe dell’agosto precedente, attuato da un gruppo di burocrati nostalgici, non ci furono episodi di resistenza: le fabbriche non scesero in sciopero, l’Armata rossa rimase nelle caserme, i soviet non si mossero e il Partito comunista, che contava ancora 15 milioni di iscritti, si sciolse come neve al sole. C’è una sola spiegazione per questo apparente paradosso: non stava avvenendo una controrivoluzione perché questa era già avvenuta decenni prima, quando Stalin consolidò il suo potere sull’URSS e sull’Internazionale comunista. Finiva solo un grande equivoco che, anche grazie alla vittoria nella Seconda guerra mondiale, aveva illuso lavoratori in tutto il mondo, lasciando però dietro di sé un panorama di rovine.

Nel 1940, poco prima di suicidarsi per non cadere nelle mani dei nazisti, il filosofo Walter Benjamin scriveva: “C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.

È solo recuperando Lenin da questo cumulo rovine che la storia del movimento operaio rivoluzionario potrà oggi ripartire.

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