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Ieri per la prima volta i lavoratori dell’intera filiera di Amazon – dipendenti di Amazon Italia Logistica e Amazon Italia Transport e dei corrieri che effettuano le consegne per conto del gruppo americano –  hanno scioperato e questa, aldilà dei controversi risultati dello sciopero, è già di per sé una notizia. Hanno scioperato per chiedere l’apertura di una trattativa su temi dirimenti come orari e ritmi di lavoro, ma la vera posta in gioco per i lavoratori è la possibilità di organizzarsi sindacalmente sul posto di lavoro. PuntoCritico è da sempre particolarmente attento agli sviluppi del conflitto sindacale in quest’azienda, in Italia e nel mondo. Abbiamo intervistato lavoratori e attivisti sindacali italiani e stranieri (PuntoCritico080319, PuntoCritico150520), tradotto articoli di cronaca sindacale (PuntoCritico090419, PuntoCritico260719, PuntoCritico080520) e analisi sulla logistica e il lavoro digitalizzato (PuntoCritico080319, PuntoCritico060218). Lo abbiamo fatto perché pensiamo che qui si trovi una delle nuove frontiere del lavoro e del conflitto di classe nel mondo. In questa newsletter pubblichiamo tre lavori che documentano aspetti differenti del lavoro in Amazon. Il primo è un estratto di un articolo più ampio pubblicato nel 2018 su Quaderni di Rassegna Sindacale che tratta incognite e problemi dell’azione sindacale in Amazon a partire dalle esperienze di questi anni in Germania e in Italia. Il secondo è una mappa ragionata della presenza di Amazon in Italia, che abbiamo realizzato nel quadro di un più ampio lavoro di inchiesta, e che ambisce a fornire per la prima volta un’immagine esauriente della presenza storica di Amazon nel nostro paese, indicando la posizione di tutte le sedi – operative, dismesse, prossime all’apertura, in costruzione o semplicemente autorizzate, corredata di informazioni logistiche e sociali dei rispettivi territori e una descrizione delle diverse tipologie dei centri delle rete di distribuzione di Amazon, legata anche alle dimensioni, al numero di addetti e all’organizzazione del lavoro interna. Infine la traduzione della recensione al film Nomadland pubblicata da Jacobin, che affronta il tema del lavoro nomade negli USA, da cui la società fondata da Jeff Bezos trae ampiamente vantaggio, ma che di recente si è affacciato anche in Italia (Polesine24051220). Ci auguriamo di avervi fornito qualche elemento in più per comprendere lo sciopero di ieri. Buona lettura!


Amazon e il sindacato: l’esperienza tedesca e italiana

BRUNO CATTERO-MARTA D’ONOFRIO, Quaderni di Rassegna Sindacale, 2018

  1. Germania: un conflitto per il riconoscimento

Amazon è presente in Germania fin dal 1999, dove si insediò con un centro di distribuzione a Bad Hersfeld, in Assia, rimasto l’unico fino al 2006. Oggi conta nove centri a pieno regime, per un totale di addetti intorno alle 13-14.000 unita, assunzioni stagionali escluse; a questi vanno aggiunti altri tre centri aperti più di recente, da cui e atteso un incremento occupazionale di circa 3.000 addetti, che potrebbero aumentare fino a 4.000-4.500 a pieno regime. Ma è un’espansione destinata a proseguire, anche per la crucialità della collocazione geografica della Germania rispetto all’Europa centrale e settentrionale, tant’è vero che il 2018 e iniziato con notizie attendibili, pur se non (ancora) confermate, di altri nuovi centri di distribuzione o di smistamento nelle aree di Amburgo, Hannover, Monchengladbach e Colonia.

Per quanto riguarda specificamente le relazioni industriali, Amazon non aderisce alla propria associazione di categoria e di conseguenza non applica il contratto collettivo. Nelle retribuzioni si “orienta” al contratto collettivo della logistica, senza applicarlo. Tutto il resto è gestito unilateralmente dal management: dagli orari ai turni a ogni altra questione di organizzazione e di gestione della forza lavoro. Nei primi dodici anni Amazon era anche un’impresa sostanzialmente de-sindacalizzata, di cui non si sapeva sostanzialmente nulla. La vertenza sindacale del 2012 si innesca come esito di un progetto biennale di organizing avviato nel 2011 dal sindacato Ver.di (il sindacato unificato dei servizi) nel centro di distribuzione “storico” di Bad Hersfeld, che ha consentito di costituire per la prima volta strutture sindacali in Amazon (Schulten 2013). La piattaforma di rivendicazioni presentata nell’autunno 2012, con al centro la richiesta all’impresa di aderire al contratto collettivo del commercio (Einzel- und Versandhandel), si è scontrata tuttavia con la totale indifferenza del management di Bad Hersfeld. Si è arrivati così al primo sciopero (9 aprile 2013), con una partecipazione di circa 1.100 addetti tra primo e secondo turno su un totale di 3.400 unità. Da allora gli scioperi si sono moltiplicati ogni anno e sono stati estesi a quasi tutti gli altri centri di distribuzione. Conteggiando le ultime astensioni dal lavoro di fine settembre 2017 Ver.di calcola di aver raggiunto complessivamente la soglia delle quaranta giornate di sciopero. La cifra e ragguardevole, tanto più in un contesto come quello tedesco. Cosa è stato ottenuto? Dall’inizio del conflitto Amazon ha introdotto annualmente modesti aumenti salariali, non omogenei in tutti i centri di distribuzione, la tredicesima e alcune migliorie minime sulla sicurezza e sull’ambiente di lavoro (Boewe, Schulten 2015-2017). Considerato che la retribuzione era rimasta invariata fino al 2013 e che la tredicesima era sconosciuta, il sindacato può ascrivere tutto ciò alla sua azione. Ma aumenti salariali e migliorie restano decisioni unilaterali e discrezionali che l’azienda ascrive a se stessa, come riconoscimento benevolo alle proprie maestranze. Parallelamente Amazon definisce il sindacato come un “terzo estraneo” (Oberhuber 2015), con il quale per definizione non c’è né ragione né bisogno di sedersi a discutere.

A cinque anni di distanza dall’avvio della vertenza il suo obiettivo principale, il contratto collettivo, non è stato raggiunto. La disputa ha cessato ben presto di essere un normale conflitto distributivo e si è trasformata in un conflitto per il riconoscimento (Honneth 2011; Rehder 2016): un conflitto in cui la posta in gioco e il riconoscimento della controparte e, insieme, dell’istituzione “autonomia collettiva”. Delle regole del gioco. Un conflitto di questo tipo, una volta innescato, non lascia spazio alle mediazioni: chi cede ha perso. Come sottolinea Rehder, che riprende qui Scharpf (2000), nella spirale di reciproca ostilità anche i costi sostenuti per vincere diventano irrilevanti se giudicati inferiori alla perdita che subisce la controparte (Rehder 2016, p. 369). Tutto ciò spiega l’opposta e uguale tenacia di Ver.di e di Amazon. Ma le opzioni e le risorse a disposizione dei due contraenti appaiono drammaticamente asimmetriche. Il sindacato si trova infatti a doversi confrontare con tre ostacoli strutturali: 1) l’erosione delle istituzioni di regolazione a livello di impresa, 2) la flessibilizzazione del rapporto di lavoro e 3) la scarsa efficacia delle forme di mobilitazione tradizionale.

1) Erosione delle istituzioni di regolazione a livello di impresa. Il primo ostacolo all’azione sindacale è dato dall’architettura societaria di Amazon. Ogni centro di distribuzione e una GmbH autonoma (l’equivalente di una srl italiana), con una propria direzione, facente parte della holding con sede a Lussemburgo (Amazon Europe). Questa costruzione giuridica ha due conseguenze sul piano istituzionale: in primo luogo i consigli di azienda sono possibili a livello di stabilimento, ma non c’e un consiglio di azienda a livello di impresa (Gesamtbetriebsrat) e quindi nemmeno i flussi di informazione e il coordinamento che questo faciliterebbe. In secondo luogo anche per il consiglio di sorveglianza (Aufsichtsrat) previsto dalla legge sulla codeterminazione vale la stessa regola: esso diventa esigibile soltanto a livello di singolo stabilimento, che deve superare la soglia dei 2.000 dipendenti. Il sindacato è riuscito a imporlo per via giudiziaria a Bad Hersfeld, nel 2014. Ma il consiglio di sorveglianza di Bad Hersfeld ha competenze e diritti di informazione limitati a quel sito, mentre tutte le informazioni rilevanti e le scelte strategiche sono dislocate a Monaco (sede direzionale) e in Lussemburgo. Inoltre Amazon, da allora, e attenta a mantenere il numero dei dipendenti negli altri centri di distribuzione sotto la soglia giuridicamente rilevante per la codeterminazione, se necessario integrandolo con lavoratori interinali che non entrano nel computo. Appare quasi superfluo evidenziare che la configurazione societaria di Amazon Deutschland, con un consiglio di sorveglianza in un sito soltanto e competente soltanto per quello, anziché uno presso la sede direzionale e competente per tutta Amazon Deutschland, non risponde allo spirito della legge del 1976 perché non consente una codeterminazione a livello di impresa.

Quanto ai consigli di azienda (Betriebsrate), l’organo di rappresentanza dei dipendenti, esigibile perché previsto dalla legge sullo statuto aziendale ma formalmente indipendente dal sindacato, Amazon si e mossa in modo molto accorto. Poco dopo l’inizio della vertenza sul contratto collettivo l’impresa ha incentivato la costituzione dei consigli di azienda in tutti i nuovi stabilimenti. Nella fase iniziale dell’attività di un centro di distribuzione è impossibile per Ver.di raggiungere tassi di sindacalizzazione significativi perché opera il deterrente della durata temporanea del rapporto di lavoro al momento dell’assunzione, che può essere rinnovata fino a due anni. Manifestare la propria adesione al “terzo estraneo” in questa fase equivale a un suicidio occupazionale. Viceversa, candidarsi in una lista gradita al management è senz’altro una strategia razionale rispetto all’obiettivo della trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Di fatto il management ha raggiunto quanto si era prefisso: attualmente i consigli con una stabile maggioranza sindacale sono l’eccezione (Bad Hersfeld, Reihnberg), tutti gli altri sono su posizioni aziendaliste oppure divisi al loro interno (Boewe, Schulten 2015-2017).

2) La flessibilizzazione del rapporto di lavoro, in linea generale, consente ad Amazon di mantenere in ogni stabilimento una quota rilevante di addetti in condizioni contrattuali precarie, e quindi ricattabili, e di ricorrere praticamente senza limiti a lavoratori stagionali “usa e getta”, togliendo efficacia agli scioperi. Nello specifico intervengono poi le scelte di insediamento di Amazon, che localizza i suoi centri di distribuzione sistematicamente in regioni strutturalmente deboli, con tassi di disoccupazione elevati. In tali contesti offre posti di lavoro a personale – stranieri e immigrati inclusi – con scarsa o nulla qualificazione, spesso disoccupato da lungo periodo o con alle spalle occupazioni precarie, per il quale un rapporto di lavoro con Amazon è comparativamente tra il meglio – quando non addirittura il meglio – che il territorio possa offrire. Lo è anche, in generale, rispetto a molti posti di lavoro nel commercio: non e un “mini-job” insufficiente per vivere e non e un part-time imposto. Il datore di lavoro è un’impresa di successo che ti versa lo stipendio puntualmente, orari e turni sono regolari e permettono di organizzare la vita, di pianificare. Su questo sfondo un rapporto di lavoro a tempo indeterminato da Amazon appare ai più come la manna dal cielo: se lo si ha, non lo si vuole perdere. E si ha paura di perderlo. Se non lo si ha ancora, perché assunti come stagionali o a tempo determinato o perché si è in cerca di lavoro, rappresenta per i più l’obiettivo da raggiungere. Aver raggiunto il 30% di sindacalizzazione in queste condizioni è un incentivo per il sindacato a proseguire nella lotta per il contratto collettivo, ma il sindacato deve fare i conti con un segmento della forza lavoro che considera il conflitto in corso un pericolo per il proprio posto di lavoro; segmento che Amazon mobilita in forme diverse, dal blog aziendale fino alla raccolta di firme contrarie allo sciopero, come già avvenuto nel 2013.

3) Il terzo ostacolo strutturale che si frappone all’azione del sindacato e infine la tecnologia digitale: in caso di sciopero Amazon non ha difficolta a dirottare temporaneamente i flussi organizzativi di ordini e di spedizioni su altri siti, riducendo significativamente gli effetti delle astensioni dal lavoro a livello di singolo stabilimento o azzerandone addirittura ogni efficacia. Si tratta di una vera e propria “corazza digitale”, intangibile e difficile da perforare con le armi tradizionali, non ultimo per le sue dimensioni transnazionali: nel 2014, l’anno successivo all’inizio del conflitto con Ver.di, Amazon ha aperto tre nuovi centri di distribuzione in Polonia (due a Wroclaw e un terzo a Poznań), altri due sono già in costruzione, e a questi vanno aggiunti i due centri avviati nella Repubblica Ceca, nei pressi dell’aeroporto di Praga. Tutti questi siti si trovano a poca distanza dal confine con la Germania, sono dedicati pressoché esclusivamente al mercato tedesco e sono gestiti direttamente da Amazon Deutschland.

Sulle prospettive del conflitto in Germania torneremo in sede conclusiva. Prima ci soffermiamo sugli sviluppi in Italia.

  1. Amazon e i sindacati in Italia: riconoscimento formale, unilateralità sostanziale

Amazon si insedia in Italia nel 2011, presso Castel San Giovanni (Piacenza), con un centro di distribuzione di grandi dimensioni che occupa oggi circa 1.500 addetti. Dal 2015 e iniziato un processo di forte espansione con l’apertura di centri di smistamento di dimensioni più piccole nelle aree metropolitane di Milano (Origgio, in provincia di Varese, e Rogoredo) e di Torino (Avigliana), mentre il call center per l’assistenza clienti e localizzato a Cagliari. Nel settembre 2017 è già iniziata la fase di rodaggio di un nuovo centro di distribuzione per merci di grandi dimensioni a Larizzate, alle porte di Vercelli, con un’occupazione prevista a regime di seicento dipendenti, e di un centro più grande a Passo Corese (Rieti), che dovrebbe caratterizzarsi per un maggior grado di robotizzazione. Inoltre nei primi giorni del 2018 è stata annunciata l’apertura di altri due centri, uno di distribuzione nel Torinese (Torrazza Piemonte), con circa 1.200 addetti a regime, e uno di smistamento a Casirate, in provincia di Bergamo (quattrocento dipendenti). Come in Germania, tutte le sedi Amazon in Italia sono entità giuridiche autonome.

Sul piano delle condizioni di lavoro la realtà più consolidata, quella di Castel San Giovanni, presenta gli stessi tratti negativi che caratterizzano il lavoro in tutti i centri di distribuzione o di smistamento di Amazon nel mondo. Il lato umano del “management algoritmico” è caratterizzato da mansioni ripetitive e parcellizzate (un ciclo completo di lavoro dura al massimo due minuti), compiute per tutto il turno di lavoro poiché la job rotation, per quanto declamata, resta un’eccezione. Alla ripetitività si aggiunge l’intensità del ritmo imposto ai lavoratori per raggiungere gli obiettivi prefissi. La pausa principale prevista per ogni turno – di mezz’ora retribuita – finisce spesso per essere penalizzata dal punto in cui si trova il lavoratore all’interno dello stabilimento rispetto alla mensa, in quanto lo spostamento viene calcolato già come pausa. Brevi intervalli per un caffè o una bevanda ai distributori automatici non sono previsti. Quanto alle “pause fisiologiche” sono i lavoratori stessi a farne un uso molto limitato, dato che è necessario chiedere al proprio “leader” il permesso di abbandonare la postazione o di interrompere la mansione; il lavoro, tuttavia, prosegue virtualmente e al ritorno l’addetto al picking o al packing dovrà necessariamente aumentare il proprio ritmo per recuperare il tempo “perso”. Del resto tutto avviene sotto il rigido controllo e feedback del management algoritmico, che registra ogni percorso e ogni minuto della prestazione e delle pause.

Ripetitività, distanze da coprire (si calcola che gli addetti al picking percorrano almeno quindici chilometri al giorno, nei periodi di punta anche di più) e ritmi incessanti logorano in breve tempo l’apparato muscolo-scheletrico e causano infiammazioni alla schiena e agli arti. I rappresentanti sindacali in azienda sottolineano tassi elevati di assenteismo e turn over legato a infortuni assolutamente sopra la media, e insieme la pressione intimidatoria del management volta a derubricare “infortuni correlati alla mansione” in normali malattie o malanni stagionali, trasformandoli in ferie. In tal modo gli infortuni non compaiono nelle statistiche e l’Inail non è in grado di riconoscerli come tali, ne tantomeno di valutare l’insorgere e la diffusione di malattie professionali.

Come in Germania, e altrove, l’accettazione di condizioni di lavoro cosi estreme e la totale discrezionalità manageriale nella gestione della forza lavoro – nel caso dei magazzini di Amazon il termine “risorsa umana” appare fuori luogo – sono strettamente correlate alla precarietà del contratto di lavoro, in particolare nel caso degli interinali, e con l’assenza di alternative per chi è stato infine confermato a tempo indeterminato. Tutti gli addetti vengono assunti tramite le agenzie del lavoro, con contratti la cui prima scadenza e bisettimanale e successivamente mensile. La quota degli interinali è particolarmente elevata in occasione dei picchi attesi di ordinazioni: in un periodo come quello natalizio l’organico può raggiungere anche le 4.000 unità. Benché sia noto fin dall’inizio che la stragrande maggioranza non sarà confermata, la speranza di esserlo e gli stessi tempi di preavviso di rinnovo durante il periodo interinale, di norma un giorno soltanto, agiscono come efficaci dispositivi di disciplinamento. Per chi resta, la speranza di essere collocato prima o poi – o anche solo talvolta – in una delle poche posizioni lavorative meno vincolate e forse un giorno di salire di grado, diventando “leader”, può essere alimentata soltanto aderendo in toto alla “cultura amazoniana” di cui fanno parte i ranking che distinguono pubblicamente i lavoratori virtuosi da quelli non virtuosi, i premi in gadget aziendali e le cene aziendali di “area” con i propri superiori gerarchici, volte a creare artificialmente l’informalità e il clima famigliare che il management algoritmico non contempla durante l’orario di lavoro5.

Sul terreno delle relazioni industriali emergono invece due differenze iniziali rispetto alla Germania: Amazon Italia applica a Piacenza il contratto collettivo nazionale, e che è quello del commercio. La scelta non è frutto di una pressione dei sindacati, che anzi nei primi anni di attività del centro di distribuzione sono assenti e iniziano a essere attivi sostanzialmente nel 2016, con i primi iscritti e successivamente con l’elezione delle proprie rappresentanze aziendali (Rsa). D’altro canto, all’applicazione formale del contratto collettivo non corrisponde alcuna differenza sostanziale con i siti tedeschi rispetto a condizioni di lavoro e discrezionalità manageriale. Anche per questa ragione nella primavera del 2017 i sindacati territoriali del commercio sono passati all’azione elaborando una piattaforma per un contratto integrativo aziendale che regoli tutti i punti critici della prestazione lavorativa in Amazon, in particolare straordinari e turni notturni, lavoro festivo e domenicale, regolazione delle ferie, applicazione della job rotation e distribuzione più equa dei carichi di lavoro, sicurezza del lavoro e informazione puntuale e continuativa sugli infortuni. A quel punto le differenze con la situazione tedesca, com’era da attendersi, si sono immediatamente relativizzate: Amazon non ha reagito alla richiesta di aprire un tavolo negoziale, lasciandola cadere nel vuoto. Così come, all’interno del centro di distribuzione, il management ha ascoltato più o meno cortesemente le eventuali rimostranze e richieste delle Rsa, senza darvi alcun seguito.

Per quanto i sindacati avessero sottolineato una partecipazione crescente e quasi inaspettata alle ultime assemblee in azienda, il tasso di sindacalizzazione, intorno al 10%-15%, appariva ancora troppo modesto per sorreggere una mobilitazione a sostegno di una vertenza per il contratto integrativo. Su questo sfondo lo sciopero indetto a Castel San Giovanni in concomitanza con il “Black Friday”, il 24 novembre 2017, è stato inatteso. Al di là della diatriba sul numero dei partecipanti (per i sindacati oltre il 50% dei lavoratori a tempo indeterminato, per Amazon appena il 10%), la mobilitazione può ritenersi un successo sindacale per l’eco mediatica che l’ha accompagnata e seguita nonché per i primi segni di attenzione istituzionale rispetto alle condizioni di lavoro6. Allo stesso tempo, e tanto più sullo sfondo delle vicende tedesche, non erano da attendersi altri risultati se non il successivo diniego dell’azienda di avviare una trattativa sulla piattaforma cosi come il passaggio dalla cortesia formale all’ostilità sostanziale, culminato nello sgarbo istituzionale della mancata partecipazione all’incontro di mediazione organizzato dalla prefettura piacentina.

Ben più rilevante appare piuttosto l’annuncio precedente allo sciopero con cui Amazon ha spiazzato i sindacati comunicando che nei nuovi stabilimenti di Vercelli e di Passo Corese applicherà il contratto collettivo della logistica, come già avviene nei centri di smistamento minori. La scelta dell’azienda rimescola le carte perché rende altamente improbabile la permanenza del solo centro di Castel San Giovanni nell’alveo del commercio.

5 Ne siamo stati casualmente testimoni diretti a ridosso delle festività natalizie in una trattoria di Alessandria, la cui area geografica e ora un bacino di reclutamento anche per il nuovo centro nel Vercellese.

6 Ci riferiamo in particolare all’ispezione avviata ufficialmente dall’Ispettorato nazionale del lavoro il 7 dicembre 2017 volta a verificare l’osservanza delle norme di tutela dei rapporti di lavoro e di legislazione sociale nei confronti del personale occupato nel centro Amazon di Castel San Giovanni (cfr. Del Frate 2017).

Tratto da Orfani delle istituzioni. Lavoratori, sindacati e le “fabbriche terziarie digitalizzate “ di Amazon (Quaderni di Rassegna Sindacale – Lavori, 2018, 1, 7-28).

Bruno Cattero è docente di Sociologia dei processi economici e del lavoro presso il Dipartimento di Giurisprudenza e di Scienze politiche, economiche e sociali (Digspes) dell’Università del Piemonte orientale; Marta D’Onofrio e borsista di ricerca presso il Dipartimento di Giurisprudenza e di Scienze politiche, economiche e sociali (Digspes) dell’Università del Piemonte orientale.


Amazon in Italia. Una mappa ragionata

La mappa è consultabile cliccando QUI ed è corredata di schede informative, una classificazione delle diverse tipologie di sedi, un video che mostra il funzionamento di un centro di distribuzione e di un centro di smistamento integrati e, infine, alcune considerazioni sulla dislocazione dei depositi. Come abbiamo scritto all’inizio si tratta di un prodotto semilavorato, parte di un più ampio lavoro di ricerca che PuntoCritico ha avviato di recente e che si svilupperà nei prossimi mesi per poi essere pubblicato integralmente. La scelta della mappa deriva dall’idea che per capire le scelte strategiche di Amazon nel nostro paese fosse necessario innanzitutto farsi un quadro chiaro e per quanto possibile completo della sua crescita sul territorio e delle logiche che l’hanno ispirata.


Amazon e il lavoro nomade in un film

Massimo Straccini, 58 anni, abitava nel parcheggio dello stabilimento di Rovigo di Amazon perché non aveva le garanzie necessarie per ottenere un affitto: “Mai criticato l’azienda, ma il precariato”.

“Nella mia squadra sono l’unico a cui hanno rinnovato il contratto. Temo di essere stato penalizzato perché ho raccontato la mia storia”.

Questa notizia recente apparsa sui giornali insieme alle notizie sulla lotta in Alabama per il riconoscimento del sindacato in Amazon rendono interessante la recensione del film Nomadland pubblicata sul sito americano Jacobin, che abbiamo tradotto per voi.

Il film, vincitore del Leone d’oro al festival di Venezia e ai Golden Globes e interpretato e coprodotto dalla due volte premio Oscar Frances McDormand, in Italia uscirà il 30 aprile in streaming su Disney+ per poi approdare nelle sale quando le regole sanitarie lo permetteranno. QUI il trailer.


Nomadi in cerca di un avversario

Il nuovo film Nomadland, candidato agli Oscar, è uno sguardo commosso sulla vita degli americani itineranti messi ai margini dalla Grande Recessione. Ma ignora come imprenditori come Amazon stiano rastrellando profitti da questa nuova classe di lavoratori.

PARIS MARX, Jacobin, 26 febbraio 2021

In conseguenza del crollo immobiliare del 2008 milioni di americani non hanno più avuto la possibilità di pagare i mutui sulle case. Alcuni di essi avevano sempre dovuto lottare con le rate, altri avevano goduto di una sicurezza economica fino a che la Grande Recessione non ha svuotato i loro conti di risparmio e spezzato le loro vite. Per alcuni è sembrato non ci fossero alternative a fare le valigie e mettersi in viaggio per sempre.

Il film Nomadland, che è basato sull’omonimo saggio del 2017 della giornalista Jessica Bruder, porta il pubblico nel mondo delle persone che vivono nei loro furgoni e nei camper attraversando gli Stati Uniti alla ricerca di lavori stagionali. Il film di Chloé Zhao in sé è un film di fiction, in cui la regista usa i dettagli del libro per mandare la protagonista di fantasia del film, che si chiama Fern (Frances McDormand), in viaggio con dei veri lavoratori nomadi, collocandoli negli stessi luoghi descritti dalla Bruder. Come ha sottolineato la regista il personaggio di Fern serve come guida per gli spettatori, che li conduce in questo sconosciuto mondo americano.

Il film offre una descrizione empatica di questi nomadi. E se da una parte coglie la relazione tra questi americani erranti e i paesaggi meravigliosi in cui si trovano ad abitare nel corso dei loro viaggi, dall’altra non rinuncia a puntare il dito contro la crisi finanziaria, responsabile del dramma che essi devono affrontare. Tuttavia, sorprendentemente, sottovaluta il modo in cui gli imprenditori attraverso il paese traggono vantaggio da loro.

La vita dei nomadi del Dopo Recessione

Fern viveva a Empire, in Nevada, un tempo città industriale costruita attorno a una miniera di gesso ed una fabbrica di cartongesso. Ma nel dicembre del 2010, dopo novant’anni di attività, la ditta annunciò che la domanda era crollata e che chi viveva nelle case di proprietà della compagnia doveva lasciarle alla fine dell’anno scolastico. Fern non è un personaggio reale, ma la storia di Empire è vera.

Dopo aver avuto la vita spezzata a sessant’anni Fern inizia a vivere nel suo furgone il cui retro ha riconvertito in un piccolo soggiorno. Non ha molti soldi e alla sua età le possibilità di trovare un lavoro fisso sono molto scarse, perciò si unisce a un gruppo di persone che si spostano durante l’anno per ottenere impieghi stagionali nella raccolta nei campi, lavorando nel turismo e, nei periodi dei picchi di consegne, nei magazzini di Amazon.

Oltre a Frances McDormand e David Strathairn, che recita la parte di David, un altro vagabondo, il resto del cast è costituito da attori non professionisti che vivono realmente sulla strada. Linda May, che nel libro della Bruder ha un ruolo di primo piano, mentre gioca a carte con Fern aspettando che il bucato sia pronto, discute con lei della possibilità di costruire una Earthship [case solari passive con sistemi di riscaldamento e raffrescamento a energia zero, indipendenti dal punto di vista dell’approvvigionamento idrico ed energetico e costruite con materiali di riciclo, N.d.T.]. Charlene Swankie manda a Fern un video quando riesce a realizzare il suo obiettivo: fare kayak in Alaska. Sebbene alcuni aspetti delle loro vite siano romanzati, la produzione ha dedicato molto tempo a cogliere in modo autentico il modo in cui vivono i nomadi.

Guardando ai nomadi di solito semplicemente si pensa che vivano nei camper e nei furgoni perché è l’unica soluzione che possono permettersi. Sicuramente in molti casi è vero, ma c’è anche più di questo. Molti di essi a quanto pare vivono una vita nomade per scelta, scettici circa le prospettive che vengono rifilate agli americani dei nostri giorni: la necessità di fare debiti per studiare o per avere una casa e quindi di lavorare per il resto della loro vita per pagarli tutti, scoprendo che la stagione d’oro della pensione non arriverà mai. Incarnano una critica importante a uno stile di vita che è stato promosso nel dopoguerra, che ha funzionato per decenni, ma che, col passare degli anni, sta portando benefici a un numero sempre più ridotto di persone.

Purtroppo, data l’erosione della forza collettiva della classe operaia americana, la risposta di questi girovaghi non è organizzarsi in qualche modo per sfidare o riformare in qualche modo lo stato di cose, ma piuttosto di trovare delle soluzioni individuali per dissociarsene il più possibile.

E mentre alcuni li compatiscono, altri vedono in loro un’opportunità. Per guadagnare quel poco di cui hanno bisogno, infatti, queste persone si sono trasformate in una forza lavoro itinerante, ricoprendo incarichi stagionali attraverso il paese. Il loro scarso potere contrattuale li ha lasciati alla mercé degli imprenditori, e il film sfortunatamente sorvola su questo aspetto.

Come Amazon è diventata dannatamente ricca grazie ai lavoratori nomadi

Nel corso di Nomadland Fern svolge una varietà di lavori temporanei. Si occupa di un campeggio con Linda May, serve hamburger da Wall Drug con David, soffre da sola lavorando nella raccolta delle barbabietole da zucchero. Ma il primo lavoro in cui la vediamo all’opera si svolge in un tentacolare centro di distribuzione di Amazon.

Amazon non è affatto conosciuta per trattare bene i dipendenti dei suoi magazzini. Durante la pandemia questi lavoratori si lamentavano che l’azienda non faceva abbastanza per tutelare la loro sicurezza dal rischio di contrarre il virus dai colleghi, ma anche prima era chiaro che i lavoratori Amazon erano soggetti ad un tasso di infortuni più alto, erano oberati di lavoro, soggetti a obiettivi di produzione rigidi e venivano intimoriti persino quando chiedevano di fare una pausa per andare al bagno.

Come reporter Bruder non tralascia questi dettagli, descrive turni di dieci o più ore durante i quali i lavoratori percorrono quindici miglia e più tra gli scaffali. I lavoratori le hanno raccontato che per farcela prendono antidolorifici durante le pause e cercano di non stare in piedi durante le giornate di riposo perché le gambe fanno molto male. Mentre Amazon beneficia enormemente della loro disperazione.

Il programma di Amazon per attirare i “lavoratori dei camper” si chiama l’Esercito dei Camper e cominciò come un esperimento effettuato in coincidenza col crollo del mercato immobiliare per assicurare alla società di avere personale sufficiente quando gli ordini, intorno al periodo delle vacanza, si moltiplicano in modo frenetico. Ma Bruder osserva che Amazon ha colto immediatamente il valore di questi lavoratori itineranti e ne è diventata la reclutatrice più aggressiva. Amazon ottiene crediti d’imposta sulle tasse federali assumendo questi lavoratori, perché la maggior parte di essi ricade nelle categorie svantaggiate, ma la società beneficia anche del fatto che questi lavoratori pretendono meno in termini di salario e di contributi e non presentano il rischio di sindacalizzarsi, in definitiva dimostrano apprezzamento per qualsiasi parvenza di stabilità possano offrire i loro posti di lavoro a termine.

“Percorrendo le aree dei camper ci si sente come vagare in campi profughi del dopo Recessione, ultima spiaggia dove sono stati mandati gli americani, visto che la cosiddetta ripresa senza occupazione li ha esiliati allontanandoli dalla manodopera tradizionale” scrive la Bruder. Questi lavoratori sono “l’emblema del vantaggio che rappresenta questa situazione per gli imprenditori in cerca di manodopera stagionale” e Amazon non è l’unico padrone che tragga vantaggio dalla loro condizione.

Le storie di super sfruttamento, lavoro sottopagato, condizioni di lavoro pericolose sono una costante nel libro della Bruder. Ma il film sostanzialmente guarda oltre questi aspetti. Sicuramente Nomadland rappresenta la vita al centro di smistamento di Amazon come estenuante, mentre la raccolta delle barbabietole appare realmente pericolosa, ma Zhao non dà allo sfruttamento lo stesso risalto dato dalla Bruder. Questo ci spinge a interrogarci se chi ha fatto il film abbia semplicemente trascurato questa componente chiave del libro o se sia stato un compromesso da accettare per poter girare il film negli ambienti reali della storia.

Per la stabilità è necessaria una risposta collettiva

Se lo sfruttamento dei lavoratori nomadi è minimizzato da chi ha fatto il film, la vita dei nomadi e il viaggio individuale di Fern sono al centro della storia. Zhao spiega che per lei ci sono due tipi di vagabondi: quelli che sono stati costretti a questo tipo di vita dalla crisi finanziaria e quelli che sono sempre stati nomadi in fondo al cuore. La regista pensa che Fern appartenga alla seconda categoria.

E’ plausibile. Forse c’è qualcuno che, inserito nella vita convenzionale tipica del dopoguerra, invece desidera una vita sulla strada. Ma non per questo deve subire un trattamento ingiusto quando deve guadagnarsi di che vivere.

Nomadland è splendido nel suo ritrarre in modo empatico persone in gran parte dimenticate dopo che le loro vite sono state spezzate dieci anni fa e che ora si ritrovano a essere sempre in movimento alla ricerca di un lavoro stagionale sottopagato. Il lancio del film durante la pandemia ci spinge a domandarci quanto le loro fila cresceranno per effetto dell’attuale crisi economica.

Ma nessuno dovrebbe essere forzato a vivere e lavorare per strada. Ma mentre l’umanità dei lavoratori itineranti viene messa in rilevo sia nel libro che nel film, quest’ultimo non contestualizza le specifiche condizioni storiche ed economiche che provocano il loro sradicamento.

In un fuorviante tentativo di rappresentare le motivazioni individuali delle storie dei protagonisti gli autori del film hanno mancato l’opportunità di mostrare la grande verità sottesa a Nomadland: questi nomadi non stanno lottando semplicemente contro il proprio isolamento e allontanamento dal Sogno Americano, trasformandosi in oggetto di romantica commiserazione per lo spettatore. Non sono semplicemente stanchi e irrequieti. Sono anche persone prive della possibilità di organizzarsi contro gli abusi dei datori di lavoro, autorizzati dallo Stato, nei loro confronti.

Traduzione dall’inglese e introduzione di Roberto Savoja.

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