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EMERGENZA RIFIUTI? Un’emergenza non è più tale se dura da anni. E’ quanto sta avvenendo a Roma nell’ambito dei servizi pubblici. Venerdì scorso ci siamo occupati di trasporti. Oggi parliamo di rifiuti. E ricostruiamo una situazione che non è semplicemente un caso di malgoverno locale o di incompetenza: è il fallimento di una politica – o meglio della ‘non politica’ nazionale in materia di ciclo dei rifiuti. Un fallimento che dura da tempo e si manifesta nella Capitale, coi cassonetti che esplodono a pochi passi da San Pietro, mentre i dipendenti di AMA ieri scioperavano e il boss dei rifiuti Manlio Cerroni veniva assolto dall’accusa di associazione a delinquere finalizzata al traffico di rifiuti, ma si materializza anche nei continui roghi di spazzatura (259 negli ultimi due anni, +59%, il record in Lombardia) e nel caos a Genova, che – come spiega nell’intervista che gli abbiamo fatto il vicecoordinatore della RSU di AMIU, è il frutto della tragedia del Ponte, ma anche l’effetto di un sistema talmente a corto di risorse che basta un nulla per mandarlo in tilt. La seconda intervista di questo numero, a un geologo romano in passato coinvolto nel tentativo di individuare una nuova discarica nel Lazio, conferma come processi decisionali delicatissimi vengano spesso portati a termine in modo del tutto arbitrario, data l’assenza di regole definite a livello nazionale. 


ROMA Rifiuti, errore di sistema

A Virginia Raggi e al M5S non può certo essere ascritta la responsabilità di avere trasformato il vecchio settore dell’igiene urbana nell’anarchico caravanserraglio del mercato dei rifiuti che è oggi. Ma certo a Roma oggi pesa su di loro la scelta politica di non rimetterne in discussione l’architettura complessiva. Il disastro dei rifiuti nella Capitale non è semplicemente legato alla scarsa moralità dei passati amministratori: è un errore di sistema, la conseguenza pratica della contraddizione tra interesse pubblico e affari privati di cui la logica del mercato è portatrice.

La mancata approvazione del bilancio 2017 di AMA, la società del Comune di Roma che si occupa di rifiuti, implica che il 15 di novembre le banche smetteranno di fare credito alla società di igiene ambientale del Comune di Roma, mettendo a rischio tra l’altro anche il pagamento degli stipendi dei quasi 8mila dipendenti e lo sblocco delle 400 assunzioni previste tra il 2018 e il 2020. E l’effetto di un contenzioso ormai decennale tra il Comune e la stessa AMA: 18 milioni di euro che l’Assessore al Bilancio Gianni Lemmetti, come i suoi predecessori, non vuole riconoscere come corrispettivo dei servizi svolti da AMA nei cimiteri della Capitale. Così facendo la Giunta Raggi impedisce ad AMA di chiudere il bilancio, con la conseguente interruzione delle linee di credito da parte delle banche. Per questa ragione CGIL, CISL e Fiadel hanno proclamato lo sciopero di ieri che si è abbattuto su una situazione già delicatissima. Roma infatti è invasa dai rifiuti, coi cassonetti che scoppiano e strade e marciapiedi impraticabili anche in pieno centro. I primi dati parlano di adesioni al 70% sui turni della mattina e al 100% nel TMB Salario di cui ci occupiamo nelle prossime pagine.

Tuttavia lo sciopero non è la causa, bensì la conseguenza di un problema che la giunta Raggi, a quasi 2 anni e mezzo dalla sua elezione, non solo non ha risolto (che sarebbe chiedere troppo), ma non ha saputo arginare, né tanto meno affrontare con una strategia di lungo periodo. Una responsabilità che tuttavia va condivisa con la Regione Lazio di Nicola Zingaretti, ma anche coi governi nazionali che da anni appaltano la gestione dei rifiuti agli enti locali, in assenza di una politica nazionale dei rifiuti. Aldilà dello scaricabarile tra partiti e movimenti politici ciò che emerge è dunque il fallimento di una politica che ha trasformato la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti in un mero settore di mercato a contendersi le fette del quale sono – in un perfetto meccanismo di divisione del lavoro – imprese pubbliche e private, cooperative, criminalità organizzata (PuntoCritico160218 ).

Roma è semplicemente un esempio emblematico del fallimento di questa politica. Nella quarta città europea si producono ogni giorno tra 4-5mila tonnellate di rifiuti urbani (4739 la media del 2016, ma nell’ultimo anno la spazzatura è cresciuta del 10%), sparse su un’area di 1200 chilometri quadrati popolata ufficialmente da 2,8 milioni di persone, a cui si aggiungono i turisti (quasi100mila al giorno), chi a Roma ci lavora (700mila seconde alcune stime) e gli studenti fuori sede (quasi 90mila). In totale si arriva a quasi 4 milioni, senza tenere conto della quota fisiologica di popolazione ‘trasparente’ alle statistiche.

Secondo Legambiente il tasso di raccolta differenziata nella Capitale è del 44,73% (in due anni è cresciuto solo dell’1,5%). Ogni giorno quindi rimangono quindi 2-3mila tonnellate di rifiuti indifferenziati da trattare negli impianti di trattamento meccanico biologico (TMB) per poi essere avviati in discarica o a un inceneritore. 1100 vengono trattate nei due impianti AMA, Salario e Rocca Cencia, mentre altre 1150 dovrebbero essere trattate nei due impianti gestiti dal Consorzio Lazio Rifiuti (Co.La.Ri.) di Manlio Cerroni presso l’ex discarica di Malagrotta, ormai chiusa. La giunta Raggi circa un anno fa ha firmato un accordo con cui la Co.La.Ri. si impegna a ricevere 1250 tonnellate di indifferenziato al giorno nei giorni feriali e 600 in quelli festivi, fino a un massimo di 8100 tonnellate a settimana. Altre 6-700 tonnellate vengono mandate in regione (Latina e Frosinone) e in Abruzzo. E così arriviamo a quasi 3mila tonnellate al giorno. Per le emergenze c’era un accordo con un’azienda tedesca, la Enki Srl, per spedire fino a due treni da 700 tonnellate per settimana in Austria, ma l’Austria non accetta più rifiuti. E così ad agosto 700 tonnellate di spazzatura, già caricate su un treno e pronte a partire, sono rimaste a fermentare sotto il sole per due mesi prima di essere portate al TMB Salario, in mezzo alle case. A giugno invece è arrivato un nuovo accordo tra l’AMA e AMIU Puglia per spedire 150 tonnellate al giorno negli impianti della società.

Una situazione surreale

Per capire il ‘mercato dei rifiuti’ più che la tradizionale contrapposizione tra pubblico e privato va analizzata la competizione tra cartelli politico-imprenditoriali in lotta per il controllo di un business finanziato dai contribuenti con la tassa sui rifiuti. Un conflitto da cui gli stessi contribuenti e i lavoratori del settore rischiano di essere schiacciati se non trovano il modo di reagire se non insieme almeno evitando di entrare in rotta di collisione tra loro. Analizziamo questo puzzle tessera per tessera.

I due TMB pubblici, Salario e Rocca Cencia, trattano un volume di rifiuti decisamente più basso di quanto autorizzato, rispettivamente 450 (contro i 750 autorizzati) e 650 (contro 800). Si tratta infatti di impianti vecchi, bisognosi di manutenzione e con un forte impatto ambientale sui lavoratori e sui residenti (in particolare il TMB Salario), per cui si preferisce farli lavorare a basso carico. Sono circa 450 tonnellate al giorno di capacità perse, senza peraltro evitare i disagi per decine di dipendenti che ci lavorano e migliaia di persone che vivono in zona. Un disagio acuito dal fatto che i due impianti si sono trasformati anche in discariche temporanee dove svuotare i camion in attesa che i rifiuti vengano trattati.

Le 4 aziende italiane che trattano ciò che AMA non riesce a trattare sono:

–  il Co.La.Ri del boss dei rifiuti Manlio Cerroni, commissariato perché raggiunto da un’interdittiva antimafia e il cui contratto con l’AMA scadrà ai primi di aprile del 2019 per mettere a gara l’affidamento dl servizio su richiesta dell’ANAC.

Rida Ambiente, di Fabio Altissimi, concorrente di Cerroni e suo accusatore in un processo in cui Altissimi accusa i comuni di Anzio e Nettuno di avere affidato illecitamente i propri rifiuti a Cerroni invece che alla sua azienda.

SAF, società consortile dei comuni del frusinate, diretta da Lucio Migliorelli, esponente del PD legato a Francesco De Angelis, ex parlamentare europeo ed ex renziano convertitosi a Zingaretti alle prime calure della scorsa estate, candidato segretario regionale del PD.

ACIAM, società consortile dei comuni della Marsica, presieduta da Lorenza Panei, candidata del PD alle elezioni del 4 marzo voluta in lista da Renzi.

AMIU Puglia, azienda dei rifiuti dei comuni di Bari e Foggia, presieduta da Sabino Persichella, passato dalle Fabbriche di Nichi Vendola alle partite a calcetto con Renzi e il renzianissimo sindaco di Bari Decaro.

Queste 4 aziende di fatto tengono AMA in pugno, perché basta che respingano anche solo una parte dei rifiuti romani per far esplodere i cassonetti della Capitale. E hanno ragioni sia politiche sia economiche per tenere sotto ricatto l’Amministrazione Raggi, che, per parte sua, non ha fatto nulla per rendersi autonoma. E’ vero che queste società sono legate ad AMA da contratti che fissano l’obbligo di accettare un quantitativo giornaliero minimo di spazzatura, ma possono sempre appellarsi a causa di forza maggiore. Nel dicembre del 2017 Co.La.Ri. per 10 giorni ha ritirato 500 tonnellate al giorno invece di 1200, perché, a suo dire, avrebbe avuto difficoltà a smaltire i rifiuti trattati. La Rida nei mesi scorsi ha ritirato la metà del quantitativo previsto perché maggio la discarica di Colleferro è stata chiusa temporaneamente dalla Regione Lazio, che non avrebbe indicato discariche alternative, e tra il 31 marzo e il 2 aprile ha sospeso l’attività (pare senza preavviso) per lavori di manutenzione sugli impianti. La situazione più surreale è nel frusinate: l’anno scorso i sindaci decidono che la propria azienda consortile non accetterà più rifiuti da fuori provincia e lavorerà solo per loro, invece la SAF respinge i rifiuti locali e accetta 250 tonnellate al giorno dall’AMA, che paga 138 euro a tonnellata, contro i 103 euro previsti per i comuni del consorzio. Alle proteste dei sindaci presidente della SAF Migliorelli risponde mandando i loro rifiuti fuori provincia. E’ surreale, sì, ma dal punto di vista economico Migliorelli ha ragione: l’azienda che dirige ci guadagna. Se i rifiuti sono un mercato valgono le regole di mercato.

Le responsabilità

La Giunta Raggi continua ad affrontare il problema in termini emergenziali, pagando perché qualcuno si prenda i rifiuti, li tratti e li smaltisca con qualunque mezzo (inclusa la termovalorizzazione a cui il M5S teoricamente è contrario), preferibilmente lontano da Roma, ma non è riuscita in alcun modo ad arginare l’emergenza. L’accordo con Cerroni ad aprile scade e il Comune tra settembre e ottobre ha bandito due gare per il trattamento dei rifiuti, una da 105 milioni di euro, andata deserta, e una da 188, quasi il doppio del valore e con durata 24 mesi invece di 36, deserta anch’essa. I treni verso l’Austria non partono più e anche i rapporti coi sindaci del frusinate non lasciano ben sperare. Insomma le iniziative adottate per affrontare l’emergenza non hanno portato risultati; le soluzioni a lungo termine, tra cui la politica ‘rifiuti zero’ che è una bandiera del Movimento, rimangono confinate su una linea d’orizzonte ideale proiettata in un futuro indeterminato. Pinuccia Montanari, ex bibliotecaria trasformatasi in assessora itinerante (prima di arrivare in Campidoglio è stata in giunta coi sindaci PD Delrio e Vincenzi a Reggio Emilia e a Genova) sembra in cerca di palliativi, ma non intenzionata ad affrontare di petto il problema politico. La Raggi ha giocato a scaricabarile con Zingaretti per evitare di individuare un sito dove scaricare almeno temporaneamente i rifiuti in attesa di soluzioni definitive, ma allo stesso tempo ha continuato a usare i due TMB di AMA, in particolare quello sulla Salaria, come discariche non autorizzate in mezzo alle case. E preferisce pagare 200 milioni per sbarazzarsi dei rifiuti piuttosto che investire per rinnovare gli impianti di AMA o costruirne di nuovi rendendo Roma autonoma. La sindaca addirittura all’inizio del mandato si era affidata a Paola Muraro, ex consulente di Impregilo e della Regione Veneto di Giancarlo Galan, paladina degli inceneritori, ma soprattutto per 7 anni in AMA come responsabile della gestione operativa dei due TMB, che ha difeso dichiarando che l’odore rancido che emana dagli impianti è lo stesso che si sente quando si va dal fruttivendolo.

Se alla Raggi si può imputare la scelta di adattarsi a un sistema di gestione dei rifiuti fallimentare per sua natura, non le si può certo attribuire la colpa di averlo creato, colpa che semmai pesa per intero sui partiti che hanno trasformato la politica nazionale dei rifiuti nel caravanserraglio che vi abbiamo dipinto. Un sistema che più che per smaltire i rifiuti sembra pensato per portarli in tournée attraverso l’Europa a esclusivo beneficio delle aziende di logistica, dei proprietari degli impianti di trattamento e delle discariche e delle aziende che i rifiuti trattati se li rivendono, il tutto a spese dei contribuenti e di chi in questo mondo capovolto ci lavora. ‘Turismo dei rifiuti’ lo definisce il Fatto230618, che parla di circa 40 milioni di tonnellate di spazzatura in viaggio lungo la penisola su 1,7 milioni di autoarticolati, con la Lombardia che è la regione produce più rifiuti di tutti (5milioni di tonnellate), ma nonostante questo ne importa altri 12.

Il Governatore del Lazio Nicola Zingaretti che nel 2016 aveva autorizzato 10 milioni di metri cubi di rifiuti da conferire in discariche già esaurite di recente ha deciso di chiudere la discarica e l’inceneritore di Colleferro. La Regione Lazio inoltre, dopo essersi palleggiata per anni col Comune di Roma la responsabilità di indicare una nuova discarica dove sversare i rifiuti dopo la chiusura di Malagrotta, nei mei scorsi è giunta a un accordo col Campidoglio, mediato dal Ministro dell’Ambiente Costa: a Colleferro al posto dell’inceneritore nascerà un nuovo imprecisato impianto di trattamento dei rifiuti. Nel frattempo Lazio Ambiente, la società della Regione che gestisce i due impianti di Colleferro, si è indebitata per 34 milioni di euro, poi Regione e AMA hanno speso 15 milioni di euro per ricapitalizzarla e ristrutturare il termovalorizzatore e infine Zingaretti ha cercato invano di sbarazzarsene bandendo una gara a cui non si è presentato nessuno.

I comitati

Sulla chiusura degli impianti di Colleferro pesano anche le pressioni della popolazione, capeggiata da un sindaco del PD, Pierluigi Sanna, legato all’assessore alla Sanità di Zingaretti D’Amato. E qui entra in ballo un altro aspetto: lo spezzettamento del ciclo dei rifiuti va di pari passo con quello dei partiti, per cui le decisioni amministrative sono sempre più funzionali alla difesa del bacino elettorale di questo o quel politico e dei rispettivi vassalli. La popolazione sfrutta queste dinamiche per allontanare il più possibile da sé, dalla propria famiglia, dalla propria comunità qualunque cosa sia percepita come una potenziale minaccia all’ambiente o alla salute, una percezione il cui raggio si è ampliato proporzionalmente alla perdita di credibilità della politica: oggi anche la più innocente opera pubblica genera sospetti che talvolta scadono nell’irrazionale. La tragica vicenda del Ponte Morandi a Genova ha rivelato che negli anni ’60 centinaia di famiglie si fecero costruire un viadotto autostradale sulla testa e se ciò accadde, aldilà del giudizio che se ne può dare, fu perché tutto sommato quei cittadini si fidavano dello Stato. Oggi quella fiducia giace sepolta sotto decenni di scandali, incidenti e disastri ambientali.

La popolazione di Colleferro all’inizio di ottobre ha visto chiudersi definitivamente per prescrizione un processo durato 9 anni che ha visto imputati dirigenti dell’AMA , delle società coinvolte nella gestione dell’inceneritore e di quelle di rilevazione delle emissioni, accusati di traffico, falsificazione delle analisi documentali, truffa allo Stato. Dalle intercettazioni era emerso che dal 2005 al 2008 nell’inceneritore di Colleferro sono stati bruciati rifiuti non autorizzati e che i dati sulle emissioni ambientali venivano alterati per evitare che si scoprisse l’illecito.

I residenti nella zona densamente abitata intorno al TMB Salario e gli stessi dipendenti di AMA, che da anni denunciano la violazione delle più elementari regole ambientali e di sicurezza del lavoro dentro l’impianto, si sono sentiti rispondere dall’AMA e dall’assessora Montanari che l’ARPA ha certificato l’assenza di cattivi odori provenienti dall’impianto sulla Salaria, dichiarazioni smentite immediatamente dall’agenzia regionale.

Oltre ad aver perso credibilità la politica, che spesso critica l’atteggiamento NIMBY (acronimo di not in my backward, non nel mio giardino) quando è opera dei cittadini, pare anch’essa non avere altra strategia che spostare il problema il più lontano possibile. Nel 2012 Alemanno pensò di ovviare alla chiusura di Malagrotta aprendo una nuova discarica a Pian dell’Olmo, località formalmente nel comune di Roma, ma di fatto adiacente all’abitato del comune di Riano, suscitando la rabbia dei residenti. Da allora le voci e i tentativi di mettere in atto operazioni simili si sono susseguiti e la politica non ha avuto esitazioni a specularci sopra, in particolare dopo il 2016, invitando i residenti dei piccoli comuni intorno alla Capitale a protestare contro il pericolo di essere invasi dai ‘rifiuti dei Cinque Stelle’. E la Raggi, che due anni fa avrebbe avuto quel minimo di credibilità necessaria a individuare un luogo per creare una discarica o un luogo di stoccaggio temporaneo realizzati coi criteri più avanzati di sicurezza e garantendo alla popolazione la possibilità di esercitare una vigilanza, oggi quell’autorità morale se l’è bruciata.

Errore di sistema

Come accennavamo all’inizio, aldilà delle responsabilità dei singoli, è il sistema complessivo della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti che è sull’orlo della bancarotta, un fallimento di cui Roma è solo l’esempio più eclatante, anche perché concentra in una fetta relativamente piccola del territorio il 6%-7% della popolazione italiana.

Dal punto di vista industriale ciò che ha mandato in crisi il servizio – come abbiamo visto – è lo spezzettamento del ciclo, frammentato in un nugolo di soggetti pubblici, privati, no profit in concorrenza tra loro e con una compenetrazione tra politica e affari tale da mandare il sistema fuori controllo, far diminuire la produttività ed esplodere i costi. Come abbiamo scritto nel già citato dossier di febbraio, in Italia le aziende di igiene urbana hanno una media di 17 dipendenti contro i 71 delle aziende tedesche e ciò comporta la rinuncia a preziose economie di scala e dunque manda in fumo somme importanti che potrebbero essere usate per gli investimenti necessari.

D’altra parte non si tratta di un banale ‘errore’. La scelta di suddividere il business dei rifiuti in mille rivoli è in parte il frutto di un capitalismo italiano fondato sulla piccola impresa e sulla retorica del ‘piccolo è bello’, inseguita per anni da una politica che ha visto nella classe media un serbatoio di voti moderati da conquistare a tutti i costi. Ma risponde anche a un’esigenza del mercato: dividere le attività più redditizie, il core business da consegnare ai grandi gruppi, da quelle più povere, da rifilare a piccole ditte e cooperative con un costo del lavoro inferiore, meglio ancora poi se impiegano immigrati o addirittura carcerati (come avviene nella ‘rossa’ Emilia). Da questo punto di vista per le multiutility come ACEA, IREN e A2A il futuro è acquisire aziende di igiene ambientale nelle grandi città, affidando lo spazzamento alle cooperative e tenendosi il business dello smaltimento dei rifiuti con cui produrre anche energia e combustibile.

Tutto ciò è soprattutto però frutto di una scelta politica: sottrarre il controllo del servizio pubblico ai comuni cittadini e ai lavoratori del comparto e trasformarlo in mera attività commerciale al servizio delle imprese. Un gioco in cui la politica svolge un ruolo di intermediazione tra interessi privati, spesso chiedendo in cambio un ‘riconoscimento’ tangibile del ruolo svolto. Il problema è che mentre i comuni cittadini e i lavoratori hanno interesse a far funzionare il servizio, le imprese hanno interesse a far crescere i propri introiti, abbassando il più possibile i costi e tagliandolo il servizio. Un quadro che è sempre più difficile analizzare semplicemente mediante lo schema pubblico-privato. Da una parte infatti le aziende come AMA sono di proprietà di un ente pubblico, ma hanno la forma giuridica di un ente di diritto privato e i relativi obblighi di bilancio, e inoltre sono privatizzate dall’interno attraverso il conferimento di una quota crescente delle loro attività ad aziende private. Dall’altra la politica, che in teoria dovrebbe amministrare la cosa pubblica in nome di un astratto ‘interesse collettivo’, gestisce le aziende partecipate come un collettore di denaro pubblico in direzione di amici e alleati in grado di garantirle i voti necessari per rimanere al governo. Dunque la proprietà pubblica è la condizione necessaria ma non sufficiente per ridare efficienza ai servizi e diritti a lavoratori e utenti. Un’azienda pubblica sottoposta alle regole dell’economia di mercato, cioè dell’interesse privato, è una contraddizione che prima o poi si risolve a favore del mercato, a meno che la logica del mercato non venga messa in discussione. Ed è proprio su questo punto che si misura il fallimento politico dei vecchi partiti come dei nuovi movimenti.

Nei giorni scorsi il Ministero dello Sviluppo Economico di Luigi Di Maio ha diffuso uno spot televisivo (Youtube070918)  di 30 secondi, in cui la voce narrante spiega che ‘Un’economia lealmente concorrenziale incentiva l’innovazione, crea nuovi posti di lavoro e sviluppa la meritocrazia, rende liberi, riduce le disuguaglianze e premia il merito’. Il disastro dei rifiuti a Roma mette in luce i paradossi della presunta ‘concorrenza leale’, sfidando la giunta Cinque Stelle ad azioni concrete: o il problema è la ‘concorrenza sleale’ e allora ci mettano rimedio oppure non resta che concluderne che il problema non è la concorrenza in sé e per sé, il mercato appunto, e allora bisogna cacciare i mercanti dal tempio dei servizi pubblici, togliere potere a manager strapagati e dirigenti onnipotenti e ridarlo a chi nei servizi ci lavora e a chi paga con fatica la tassa sui rifiuti per non avere la spazzatura che marcisce sotto le finestre e né temere per la propria salute. 


 

Il geologo: ‘Discariche senza studi preliminari? Capita’

Come spiega l’articolo precedente uno dei fattori che ha innescato la crisi dei rifiuti a Roma è stata la chiusura della discarica di Malagrotta. Le discariche prima o poi si esauriscono e annunciare l’apertura di nuove suscita ovunque la nascita di comitati e di movimenti che si oppongono, il che spiega come la politica spesso prenda tempo. Ne parliamo con Guido Giordano, docente di Geologia all’Università Roma 3, che, come ci racconta nell’intervista, qualche anno fa ha avuto modo di collaborare col Ministero dell’Ambiente, la Regione e gli enti locali nella ricerca di un sito alternativo a Malagrotta. Come ci spiega esistono criteri scientifici per collocare impianti delicati come una discarica in modo d ridurne l’impatto al minimo, ma poiché non ci sono regole stabilite a livello nazionale può pure capitare che le indagini preliminari non vengano fatte perché costano.

Raccontaci la tua esperienza.

Quando la Regione Lazio ricevette le prime procedure di infrazione perché la discarica di Malagrotta non era conforme alle normative europee – siamo, se ben ricordo, intorno al 2012 – la giunta si pose il problema di trovare delle alternative e individuò una decina di siti. Tra questi c’erano ad esempio Riano e Corcolle e quando i giornali pubblicarono i nomi delle località ‘papabili’, ovviamente fiorirono comitati di cittadini preoccupati dalle possibili conseguenze ambientali e sanitarie, come succede di solito in queste situazioni.

Come fosti coinvolto?

All’epoca in regione c’era la Polverini e il Ministro dell’Ambiente del Governo Monti era Clini, che era stato presidente del CNR. La situazione dei rifiuti era talmente grave e ingovernabile che fu nominato un commissario. Clini nominò anche una commissione con all’interno un capace geologo e geochimico proveniente proprio dal CNR, Giuseppe Cavarretta, il quale a sua volta riunì una serie di soggetti ed enti, tra cui l’Autorità di Bacino del Tevere, noi del Dipartimento di Geologia dell’Università Roma 3, che eravamo stati coinvolti in quanto avevamo pubblicato da poco la carta geologica e idrogeologica di Roma e stavamo per pubblicare quella della Regione e poi  naturalmente Comune e Provincia di Roma e Regione Lazio. A questi soggetti si chiedeva di fatto di contribuire a scegliere un sito idoneo sul territorio della regione, a partire dalle località già selezionate.

Com’è andata?

La prima cosa che facemmo fu chiedere in base a quali parametri fossero stati individuati i siti indicati dalla Regione. In altre parole chiedemmo di accedere a eventuale documentazione e studi che normalmente si svolgono prima di indicare una località come possibile sede di un impianto con l’impatto di una discarica. Non ci venne consegnato alcun documento e ci fu detto che probabilmente si era tenuto conto solamente di due fattori: che in zona fosse già presente una cava e che ci fosse una viabilità adeguata a ricevere un flusso consistente di camion e mezzi pesanti. Quindi non si era tenuto conto di alcun criterio ambientale, geologico e idrogeologico, sociale, né erano previsti investimenti, ad esempio, per creare strade e collegamenti. La nostra proposta fu invece di definire alcuni criteri in base a cui orientare la scelta, realizzare uno studio e su quella base arrivare a una scelta che poi potesse essere spiegata ai cittadini, rassicurandoli se necessario. La risposta fu che non c’erano soldi. Si tenga presente che noi di Roma 3 – non so gli altri – ci eravamo resi disponibili a titolo gratuito.

E poi?

A quel punto continuammo a partecipare alle riunioni e cercammo di contribuire alla scelta indicando alcune condizioni a nostro avviso importanti dal punto di vista geologico. Ad esempio che nell’area selezionata ci fosse un substrato impermeabile in superficie, onde evitare di dover ricorrere a un’impermeabilizzazione artificiale, esposta all’usura del tempo e agli imprevisti (ad esempio i terremoti). Un’altra condizione era che l’area si trovasse in un bacino idrico e idrogeologico sufficientemente piccolo da non mettere in pericolo le acque, quindi ad esempio lontano da sorgenti e grandi fiumi. Da questo punto di vista ad esempio Corcolle e Riano sono sconsigliabili perché il rischio di inquinare rispettivamente l’Aniene e il Tevere sarebbe alto.

E avete trovato aree adatte?

Sulla base di queste sole considerazioni, quindi – ripeto – senza avere tutti i dati necessari a fare una scelta delicata di questo tipo,  venne individuata tuttavia una fascia adiacente alla costa, che va da Pomezia fin su nella zona a nord di Ladispoli e, tra i siti indicati dalla Regione, la scelta più ragionevole ci sembrò in particolare una cava dismessa di ghiaia e sabbia situata in via Malnome alle spalle dell’aeroporto di Fiumicino, a circa 9 chilometri dalla costa, una soluzione che non interferisce col Tevere, con una viabilità adatta, non molto lontana da Malagrotta (circa 2 chilometri) e, rispetto a quest’ultima, un po’ più lontana dall’abitato.

Ma poi non se ne è fatto nulla…

Infatti. Cominciammo gli studi che però si arenarono perché a qualche centinaio di metri dalla cava si trova un impianto militare, credo una sorta di stazione d’ascolto. Mentre stavamo facendo i nostri rilievi nella cava un giorno arrivò un folto gruppo di militari a chiederci cosa stessimo facendo e dopo che fu loro spiegato ci invitarono nella stazione per un colloquio e ci spiegarono che di fare una discarica lì non se ne parlava proprio. Secondo loro il rumore avrebbe disturbato le loro attività. Siccome la loro autorizzazione era necessaria per procedere fummo costretti ad abbandonare. Eravamo un po’ perplessi perché la cava era stata in attività fino a non moltissimi anni prima e gli aerei che passano a bassa quota tutto il giorno per atterrare a Fiumicino fanno certo più rumore dei camion che scaricano rifiuti. Per noi l’esperienza si chiuse lì e infatti quando ci proposero di continuare a collaborare rifiutammo.

Aldilà di come è finita la cosa che colpisce di più è come venga presa alla leggera una decisione di questo genere.

Sì, effettivamente l’aspetto che lascia perplessi è quello. D’altra parte a livello nazionale non esistono linee-guida che presiedano a scelte come questa e nell’assenza di regole ciascuno fa un po’ come gli pare. E’ vero che c’è una scuola di pensiero secondo cui si può costruire un impianto quasi ovunque perché eventuali problemi di carattere geologico e ambientale possono essere risolti attraverso l’ingegneria. Ma in realtà le soluzioni tecniche – lo dicevo prima – presentano due problemi. Uno è la durata: l’impermeabilizzazione del fondo di una discarica, per quanto può essere garantita? Anche fossero 70 o 100 anni c’è comunque un limite. L’altro sono gli imprevisti. Lo abbiamo visto a Fukushima. Tutti gli espedienti messi in campo per salvaguardare la centrale non sono riusciti a impedire il disastro.  Per cui la mia opinione è che sia sempre meglio selezionare località che dispongano di protezioni naturali. Ma, almeno in quell’occasione, la politica non mi è sembrata porsi questo tipo di preoccupazioni. 


GENOVA ‘Rifiuti in strada, non solo colpa del Ponte’

Da qualche giorno i giornali genovesi denunciano una situazione ormai insostenibile per i cittadini della Valpolcevera, i più colpiti dagli effetti della tragedia di Ponte Morandi: ‘discariche abusive e ritiri a singhiozzo della spazzatura in molte strade di Rivarolo,Certosa e Sampierdarena’. Una situazione che alimentato la protesta di consiglieri di municipio appartenenti sia all’opposizione sia alla maggioranza di centrodestra che governa Comune e Regione. ’C’è un limite a tutto: non si può stare con materassi e pensili di cucina per tre settimane. Anche perché la Tari la paghiamo tutti, senza sconti’ – denuncia un consigliere di Forza Italia. E se si comprendono le difficoltà di AMIU, l’azienda comunale di igiene urbana, aggiunge, ‘allora abbiamo una proposta: usate gli alpini per portare via i rifiuti ingombranti’.

Un’incapacità delle istituzioni di gestire l’emergenza? Certo, ma non solo. E’ quanto emerge parlando con Paolo Petrosino, vicecoordinatore della RSU di AMIU e lavoratore che si confronta quotidianamente coi problemi. Petrosino è uno dei rappresentanti sindacali che subito dopo la tragedia di agosto aveva rivelato al Fatto Quotidiano che la caduta di pezzi di calcestruzzo e parti metalliche sull’isola ecologica poi distrutta dal crollo del ponte era così frequente da aver costretto AMIU a installare reti di protezione.

Ciò che emerge dalle parole di Petrosino conferma la nostra diagnosi sul primo testo del DL Genova. Aldilà di alcuni positivi emendamenti, come i 30 milioni per la cassa integrazione a favore dei lavoratori delle aziende colpite dagli effetti del crollo, rimane un’impostazione che affronta con mezzi ordinari una situazione eccezionale e che peraltro era già ai limiti del collasso. Con responsabilità che quindi, a onor del vero, non ricadono solo sul Governo nazionale e locale attuali, ma anche su chi per anni ha amministrato il paese e la città lasciando che l’intero sistema dei servizi pubblici deperisse anno dopo anno.

Cosa sta succedendo?

Sta succedendo che il crollo del Morandi ha fatto esplodere una situazione che già covava da tempo sotto la cenere. Per quanto riguarda gli ingombranti poi, in realtà, i problemi erano iniziati già prima del 14 agosto, da quando l’azienda ha deciso di – diciamo così – liberalizzare il conferimento degli ingombranti, non solo per i cittadini, ma anche per quel sottobosco di ‘aziende informali’ che vivono trafficando rifiuti e che prima respingevamo applicando le regole. C’è chi a scadenze regolari viene a scaricare un camion pieno di finestre di legno. E’ evidente che si tratta di qualcuno che smaltisce questi rifiuti per conto di qualche azienda. L’intenzione di ripulire comunque le strade di per sé è buona, ma il risultato è che le isole ecologiche si intasano di camion e furgoni che scaricano di tutto e che i cittadini che pagano la TARI arrivano da noi, magari si fanno un’ora di coda, magari hanno dovuto affittare un mezzo per trasportare dei mobili vecchi e si sentono dire che non possono scaricare perché non c’è più posto.

Quindi è una situazione che non c’entra col crollo?

Diciamo che è una situazione che viene da prima, ma che, ovviamente gli effetti del crollo hanno fatto esplodere per varie ragioni. Intanto perché sotto il ponte sono rimasti non solo un’isola ecologica e un altro deposito aziendale, ma anche Ecolegno, una controllata di AMIU che si occupa di ritirare il legno, per cui oggi se dobbiamo scaricare del legno dobbiamo andare fuori Genova, sulle alture, e se prima ci mettevamo mezz’ora, adesso ci mettiamo almeno il doppio. Poi il traffico spinge chi ha ingombranti da scaricare a disertare le isole del ponente per evitare le code e i flussi si concentrano su quella della Volpara, che tra l’altro è la prima aperta a Genova, quindi quella di concezione più vecchia, più piccola e meno funzionale, che è intasata.

E per quanto riguarda i cassonetti?

Anche qui vengono a galla problemi che denunciamo da tempo: siamo sotto organico e abbiamo pochi mezzi, vecchi e spesso guasti. Negli ultimi mesi abbiamo avuto tra l’altro numerosi incidenti in cui i colleghi coinvolti hanno corso grossi rischi. Da tempo chiediamo di ripristinare il turno di notte iniziando alle 23, in modo da effettuare le operazioni di svuotamento quando c’è meno traffico per recuperare tempo. Ma l’azienda non ci sente, forse anche perché il lavoro notturno è più costoso e così oggi i turni iniziano alle 19,20, quindi addirittura prima che i negozi chiudano, un controsenso.

Parlavi di uomini e mezzi…

Ti spiego: oggi quando arrivi alla fine della giornata i cassonetti sono strapieni, per cui trovi già i sacchi dei rifiuti buttati all’esterno. Per risolvere il problema abbiamo dei porter che girano nelle strade e dovrebbero raccogliere la spazzatura da terra, in modo che quando arriva il camion l’autista deve semplicemente agganciare il cassonetto, sollevarlo e svuotarlo nel cassone. Il problema è che i porter partono alla stessa ora dei camion invece di partire prima e poi che non ci sono un camion e un porter per ogni ‘zona’. Ogni porter deve coprire più zone servite dai camion, insomma è una tela di Penelope.

E per quanto riguarda lo smaltimento?

Lì c’è un altro nodo problematico. La discarica di Scarpino, che è rimasta chiusa per anni a seguito di un intervento della magistratura. Ora è stata rimessa in sicurezza ed è riaperta, per cui è in grado di accogliere il residuo inerte, cioè i rifiuti depurati dell’organico, della carta, del legno ecc., ma le condizioni imposte dagli enti regolatori sono molto rigide, per cui molti rifiuti non possono essere accettati. D’altra parte, anche se andiamo a conferire i rifiuti fuori città, ad esempio a Torino o a La Spezia, una parte del materiale non viene accettato o comunque i tempi per la separazione delle diverse frazioni di rifiuto si allungano. Il risultato è che la spazzatura spesso non viene raccolta perché a valle c’è un tappo. I rifiuti ritirati dai cassonetti infatti vengono stoccati provvisoriamente nel silos della Volpara, in attesa che i camion di una ditta privata vengano a ritirarli e li portino allo smaltimento. Quindi se lo smaltimento va a rilento, il ciclo di raccolta e stoccaggio rallenta a sua volta. Il risultato è che oggi noi possiamo togliere una tonnellata di rifiuti dai cassonetti solo quando un abbiamo tolto una tonnellata di rifiuti dal silos e l’abbiamo caricata su un camion per portarla ai luoghi di smaltimento.

Com’è possibile?

Mi chiedo anch’io come sia possibile non capire che così non si va d nessuna parte. A volte viene addirittura il dubbio che ci vogliano consapevolmente portare al fallimento. E’ da anni che veniamo tenuti in una situazione in cui a non abbiamo le risorse necessarie ad affrontare l’ordinario. Quando poi ti capita un disastro come quello di agosto a quel punto il servizio va in tilt. Ma questo accade perché non abbiamo le persone e i mezzi per fare le operazioni e perché non sono stati fatti gli investimenti necessari per la separazione dei rifiuti e per la chiusura del ciclo e questo ci costringe a rivolgerci a impianti in altre città, col risultato che aumentano i tempi e i costi. Per di più sul decreto Genova la questione dei rifiuti non viene neanche nominata. Insomma AMIU non è autorizzata ad assumere personale in deroga ai vincoli di legge, né riceve dei fondi anche solo per acquistare dei mezzi o per spostare le sedi andate distrutte.

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