Considerazioni sulle possibili conseguenze della guerra
PIERO ACQUILINO, 27 febbraio 2022
In un’intervista pubblicata sul numero odierno de L’Espresso (27/02/2022), l’ex direttore della CIA e Segretario alla difesa USA Leon Panetta sostiene che l’attacco di Putin all’Ucraina ha avuto come effetto il ricompattamento di una NATO che molti davano già per morta perché obsoleta.
Nell’immediato è certamente così: l’inizio della guerra, e il fallimento dei tentativi di mediazione franco-tedeschi, sembrano aver messo fine alla concezione macroniana, espressa nel Trattato del Quirinale, di una NATO, semplice ombrello protettivo sotto il quale sviluppare finalmente una politica di difesa (degli interessi geopolitici e non solo del territorio) europea.
Ma, senza sbilanciarsi in previsioni impossibili, dato l’alto numero di variabili in campo, e spostando la prospettiva al medio termine, mi sembra che il risultato possa essere anche ribaltato.
È vero che l’attacco di Putin ha costretto tutti i componenti dell’Alleanza atlantica a compattarsi sotto la guida statunitense. Ma per fare cosa? Sanzioni, invio di armi e controllo dei confini europei sono senz’altro elementi importanti, la cui messa in campo però non necessita di un’alleanza militare, che serve, com’è ovvio, per l’intervento armato. Su questo Biden ha dato una risposta chiara: “L’alternativa alle sanzioni contro la Russia per punirla per l’invasione dell’Ucraina sarebbe l’inizio della Terza guerra mondiale”. E credo che in questa affermazione stia il nocciolo della questione.
La NATO è uno strumento, costruito durante la guerra fredda, nella prospettiva della Terza guerra mondiale. Lo è per il meccanismo d’intervento stabilito dall’Articolo 5 del trattato1, per il numero e l’estensione dei paesi firmatari, per il tipo di armamenti. NATO e Patto di Varsavia sterilizzavano la divisione dell’Europa stabilita a Yalta con la minaccia di una guerra mondiale che sarebbe quasi certamente divenuta una guerra atomica. Corollario di ciò era l’impossibilità di guerre limitate sul suolo europeo e l’implicita possibilità di interventi armati nelle rispettive zone d’influenza: Berlino Est nel 1953, Suez e Ungheria nel 1956, Cecoslovacchia nel 1968, Sud-Est asiatico negli anni ’60 e ‘70.
Guerre che sono ritornate possibili dopo il crollo dei regimi dell’Est, ma sub specie di “operazioni internazionali di polizia” o di “mantenimento della pace”, oppure, unico caso di ricorso all’articolo 5, per l’intervento in Afghanistan, contro un avversario a cui non veniva neanche riconosciuto lo status di belligerante. In questo contesto gli USA come unica vera superpotenza militare, si ritagliavano il ruolo di “poliziotto del mondo” perseguendo gli obiettivi (irrealistici) della “guerra a zero morti” (per loro, of course!) e della capacità di condurre contemporaneamente due conflitti in teatri diversi, con l’aiuto, gradito ma non determinante, dei loro alleati.
Proprio la fuga da Kabul ognuno per suo conto ha chiuso questa fase intermedia. Oggi l’obiettivo non più è il mantenimento dello status quo da una posizione dominante. Il declino della supremazia USA e la spettacolare ascesa della Cina con la sua rivendicazione di esercitare un peso politico e militare proporzionato a quello economico, hanno messo l’Oceano Pacifico al centro di un più che possibile teatro di crisi e di confronto militare.
Confronto che rende necessaria per gli USA una politica di alleanze, con la considerazione che la Cina potrà a medio termine diventare più forte, ma gli Stati Uniti hanno più alleati, ma che potrebbe vedere la NATO, per la sua grandezza, per la sua eterogeneità, per il suo baricentro geografico e – non ultima – per la complessità dei rapporti economici internazionali in cui la Cina è al centro, una struttura inadatta.
In sintesi mi sembra che la nuova esigenza non sia più quella di non fare la guerra perché diventerebbe mondiale, bensì quella di trovare gli strumenti per fare la guerra senza che diventi mondiale. E questi strumenti potrebbero essere alleanze “di scopo” più ristrette ma più omogenee come, per esempio quella tra USA, Regno Unito e Australia per la sicurezza dell’Indo-Pacifico denominata AUKUS.
Certo, in Europa questa esigenza è controbilanciata dall’efficacia dimostrata dalla NATO nel mantenere in mezzo al guado l’Unione Europea, impedendole di assumere un peso politico-militare proporzionato a quello economico, diventando così un concorrente più forte nella spartizione di risorse e mercati. Inoltre l’alleanza è anche un poderoso complesso militare industriale che muove capitali enormi per il suo mantenimento.
Le oscillazioni al riguardo delle amministrazioni americane tra queste due alternative dimostrano che a Washington una linea chiara non è stata ancora definita, al di là delle favolette sul “cattivo” Trump e il “buono” Biden care alla sinistra nostrana. E molto dipenderà dalla capacità del gruppo dirigente UE di uscire dal guado, in avanti o indietro.
1 “Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell’Atlantico settentrionale.”
Un’altra annata d’eccezione per il complesso militar-industriale
Opporsi al piano di investimento sociali e ambientali Build Back Better e al contempo gettare tanto denaro sul Pentagono: è il culmine dell’ipocrisia nella politica di bilancio e di difesa nazionale.
WILIAM D. HARTUNG, The Nation, 4 febbraio 2022
Il 2021 ha segnato un’altra annata eccezionale per il complesso militar-industriale, dopo che il Congresso ha approvato una spesa quasi da record di 778 miliardi di dollari per il Pentagono e le attività correlate al Dipartimento dell’Energia nel campo degli ordigni nucleari. Sono addirittura 25 miliardi più di quanto avesse chiesto il Pentagono.
Non potremo mai sottolineare abbastanza quanti soldi presi dalle tasche dei contribuenti si stiano riversando sul Pentagono. L’astronomico bilancio di quel Dipartimento ammonta, per fare un esempio, a più di quattro volte il costo della più recente versione del piano Build Back Better del presidente Biden, che ha provocato la tanto sdegnata reazione del senatore della Virginia occidentale Joe Manchin e di altri presunti nemici della spesa pubblica. I quali, naturalmente, non hanno battuto ciglio quando invece si è trattato di riversare una quota ancor più grande di gettito fiscale sul complesso militar-industriale.
Opporsi al Build Back Better e al contempo gettare tanto denaro sul Pentagono segna il culmine dell’ipocrisia della politica di bilancio e di difesa nazionale. L’ufficio Bilancio del Congresso ha calcolato che agli attuali ritmi il Pentagono nei prossimi dieci anni potrebbe ricevere la cifra monumentale di oltre 7.300 miliardi di dollari, più di quanto fu speso nel decennio apicale delle guerre in Iraq e in Afghanistan, quando soltanto in quei due paesi erano presenti 190.000 soldati americani. Tristemente, ma anche in modo persino troppo prevedibile, la decisione del presidente Biden di ritirare le truppe e i contractor dall’Afghanistan non ha fruttato neppure un minimo dividendo a favore di una politica di pace. Anzi, tutto ciò che è stato risparmiato viene già riversato in programmi intesi a contrastare la Cina, la minaccia incombente utilizzata per giustificare le scelte di bilancio di Washington (anche se al momento è oscurata dalla possibilità di un’invasione russa dell’Ucraina), nonostante già oggi la spesa militare degli USA sia tre volte quella cinese.
Il bilancio del Pentagono non è solo pantagruelico, ma trabocca di sprechi – dai generosi sovrapprezzi pagati per acquistare pezzi di ricambio di armi non funzionanti agli insostenibili costi affrontati per prolungare all’infinito le guerre, con conseguenze disastrose in termini umani ed economici. In parole povere l’attuale livello di spesa del Pentagono è sia inutile che irrazionale.
I prezzi gonfiati dei ricambi
Gonfiare i prezzi per acquistare pezzi di ricambio è una pratica che al Pentagono ha una lunga e ingloriosa tradizione. L’ultima volta in cui raggiunse un tale picco di visibilità fu negli anni Ottanta durante la presidenza di Ronald Reagan. All’epoca l’ampio risalto mediatico dato all’acquisto di tavolette coprigabinetto da 640 dollari l’uno o di macchine per il caffé da 7.600 scatenò l’indignazione pubblica e anche una serie di udienze a Capitol Hill, rafforzando la spina dorsale dei membri del Congresso. In quegli anni, infatti, essi arginarono almeno i peggiori eccessi del potenziamento militare voluto da Reagan.
Queste storie orribili di prezzi gonfiati non emergono dal nulla. Sono il frutto del lavoro di persone come la leggendaria gola profonda del Pentagono Ernest Fitzgerald. Questi inizialmente salì alla ribalta rivelando i tentativi dell’Air Force di nascondere lo sforamento miliardario dei budget per il colossale aereo da trasporto Lockheed C-5A. All’epoca fu descritto dall’ex Segretario all’Aviazione Militare Verne Orr come “l’uomo più odiato dalla Air Force”. Fitzgerald e altri insider del Pentagono divennero fonti di Dina Rasor, una giovane giornalista che cominciò ad attirare l’attenzione dei media e dei membri del Congresso sui surplus di spesa per i pezzi di ricambio e altre malefatte dei militari. Alla fine creò un’organizzazione, il Project on Military Procurement (Progetto sulle forniture militari), che avrebbe indagato e denunciato sprechi, frodi e abusi. In seguito sarebbe divenuto POGO, Project on Government Oversight (Progetto di controllo sul governo), attualmente il più efficiente organo di controllo per quanto concerne le spese militari.
Una recente analisi del POGO, ad esempio, ha documentato la mala gestione di TransDigm, un fornitore di componentistica militare che l’Ispettore generale del Dipartimento della Difesa ha colto in flagrante mentre sovrafatturava al Pentagono gonfiando del 3800% – sì, avete letto giusto – le proprie spese per l’acquisto di ricambi ordinari. La società ci riusciva per il semplice fatto che – cosa abbastanza singolare – le regole di acquisto del Pentagono impedivano ai funzionari responsabili dei contratti di acquisire informazioni accurate sull’effettivo costo degli articoli e, in particolare, sui costi di produzione.
In altre parole grazie ai regolamenti interni del Pentagono quei funzionari dovevano procedere in larga misura alla cieca per quanto riguardava il controllo della spesa. I fornitori delle forze armate sfruttano al meglio questa situazione. L’ufficio dell’Ispettore generale del Pentagono ha scoperto più di 100 casi di sovrafatturazione da parte della sola TransDigm, per un importo di 20,8 milioni di dollari. Una verifica esauriente sul comportamento di tutti i fornitori di pezzi di ricambio accerterebbe di sicuro sprechi da miliardi di dollari. E ciò, naturalmente, si tramuta in costi sempre più esorbitanti dei sistemi d’arma finiti. Come disse Fitzgerald una volta un aereo militare è solo una collezione di “pezzi di ricambio sovrafatturati che volano in formazione”.
Armi di cui il paese non ha bisogno a prezzi che non ci possiamo permettere
L’altro versante degli sprechi del Pentagono riguarda le armi di cui non avemmo bisogno e che paghiamo un prezzo che non ci possiamo permettere, cioè sistemi d’arma che costano cifre esorbitanti ma non mantengono la promessa di migliorare la nostra sicurezza. L’emblema di queste armi costose e inefficienti è l’aereo da combattimento F-35, un velivolo progettato come aereo da combattimento multiruolo, che svolge male tutti i compiti per cui è stato progettato. Il Pentagono si è impegnato ad acquistare 2.400 F-35 per l’Air Force, i marines e la marina militare. I costi del ciclo di vita necessari a procurarsi e rendere operativi questi aerei, la bellezza di 1.700 miliardi di dollari, fanno del F-35 il più costoso progetto per la realizzazione di un’arma nella storia del Pentagono.
C’era una volta (come nelle fiabe) l’idea di creare l’F-35 per disporre di un aereo prodotto in molteplici versioni e in grado di portare a termini molti compiti differenti con una spesa relativamente ridotta, grazie ai risparmi generati dalle economie di scala. In teoria ciò implicava la costruzione di migliaia di aerei fatti di componenti in larga misura identici. Questo approccio finora si è dimostrato un misero fallimento, al punto che i ricercatori del POGO sono convinti che gli F-35 non potranno mai diventare pienamente operativi.
Le falle del progetto sono troppo numerose per potere essere elencate integralmente, ma un paio di esempi dovrebbero bastare a indicare perché il programma andrebbe come minimo ridimensionato fortemente, se non del tutto cancellato. Tanto per cominciare, anche se è stato concepito per fornire appoggio aereo sul terreno alle truppe, l’F-35 si è rivelato tutto tranne che ben progettato a tal fine. In realtà quel compito è svolto già di gran lunga meglio e a minor costo da un modello già esistente, l’aereo d’attacco A-10 Warthog. Un esame compiuto nel 2021 dal Pentagono sull’F-35 – e stiamo parlando del Dipartimento della Difesa, non di un soggetto esterno – ha scoperto 800 difetti di fabbricazione a cui non si è posto rimedio. Un caso tipico dei problemi senza fine inerenti questo sistema d’arma è il casco high-tech – ogni esemplare costa 400.000 dollari – progettato allo scopo di dare al pilota una percezione particolarmente chiara di ciò che avviene attorno, sotto il velivolo e davanti a sé fino alla linea dell’orizzonte. Senza dimenticare che l’F-35 avrà spese di manutenzione enormi e uno sbalorditivo costo di 38.000 dollari per ora di volo.
Nel dicembre del 2020 il presidente dell’House Armed Services Committee Adam Smith ha dichiarato finalmente di essere “stufo di continuare a versare denaro nel pozzo senza fondo dell’F-35”. Persino l’ex capo di stato maggiore dell’Air Force Charles Brown ha riconosciuto che l’aereo non potrà centrare il suo obiettivo originario – essere un caccia a basso costo – che dovrà essere integrato con un aereo meno costoso. Brown lo ha paragonato a una Ferrari e ha aggiunto: “Non usi la tua Ferrari ogni giorno per andare al lavoro, ma solo di domenica.” È stata un’ammissione sconcertante, viste le dichiarazioni iniziali che l’F-35 sarebbe stato un caccia leggero e con costi abbordabili, il perfetto esemplare di mezzo per le future operazioni in cielo.
Non è chiaro neppure quale sia la ragione di ostinarsi a costruire nuovi F-35 quando il Pentagono ha maturato l’ossessione di una guerra con la Cina. Dopo tutto, se i timori provengono dal quel paese (a si tratta di timori esagerati, a dir la verità), è difficile immaginare scenari in cui dei caccia americani si scontrino nel cielo con aerei cinesi o siano impegnati a fornire protezione a truppe americane sul campo, non almeno in un periodo in cui il Pentagono è sempre più concentrato su missili a lungo raggio, armi ipersoniche e droni, le armi designate a combattere contro la Cina.
Quando non rimangono altri argomenti la residua giustificazione del Pentagono per la produzione di F-35 è il numero di posti di lavoro che creerà in Stati e distretti da cui provengono figure chiave del Congresso. In realtà quasi ogni investimento pubblico avrebbe ricadute maggiori e creerebbe più posti di lavoro dell’F-35. Ma trattare la produzione di sistemi d’arma come strumento di politica occupazionale per molto tempo ha aiutato il Pentagono ad aumentare le proprie spese oltre il limite necessario a garantire una adeguata difesa agli USA e ai suoi alleati.
L’F-35 però non è certo l’unico caso nella lunga e persistente storia di spese esorbitanti del Pentagono. Ci sono molti altri sistemi d’arma che meriterebbero analogamente di essere gettati nella spazzatura della storia, primo tra tutti la Littoral Combat Ship (LCS), cioè una sorta di F-35 del mare. Progettata anch’essa come nave multiruolo la LCS ha similmente fallito il bersaglio sotto tutti i profili. La marina ora sta tentando di affibbiarle altri compiti, ma con scarso successo.
Tutto ciò avviene mentre raggiungiamo l’apice di una propensione a comprare antiquate portaerei con costi che raggiungono i 13 miliardi di dollari ciascuna e a programmare una spesa di oltre 250 miliardi di dollari per un nuovo missile a testata nucleare, progetto noto come Ground-Based Strategic Deterrent (GBSD). Questi missili lanciati da terra per l’ex segretario alla Difesa William Perry sono “tra le armi più pericolose al mondo”, poiché un capo di Stato, una volta messo in allerta da un allarme nucleare, avrebbe solo qualche minuto per decidere se lanciarli. In altre parole un falso allarme (nell’era della deterrenza nucleare ce ne furono parecchi) potrebbe portare allo scoppio di una guerra mondiale nucleare.
L’organizzazione Global Zero ha dimostrato con argomenti convincenti che eliminare del tutto i missili lanciati da terra invece di produrne di nuovi, tenendo a disposizione una piccola forza di sottomarini e bombardieri con armamento nucleare con compiti di dissuasione, renderebbe gli USA e il resto del mondo più sicuri. Eliminare i missili balistici intercontinentali (ICBM) sarebbe un primo passo salutare ed economicamente conveniente verso la “saggezza nucleare”, come l’ex analista del Pentagono Daniel Ellsberg e altri esperti hanno chiaramente dimostrato.
La strategia di difesa americana cover-the-globe
Tuttavia, abbastanza sorprendentemente, lo spreco più grande di tutti è un altro: la strategia militare “cover the globe” (copri il pianeta), che implica un dispiegamento globale di oltre 750 basi militari e 200.000 soldati americani di stanza all’estero, task-force composte da enormi e costose portaerei che solcano in continuazione i sette mari e un massiccio arsenale nucleare che potrebbe distruggere la vita animata così come la conosciamo (con migliaia di testate stoccate).
È sufficiente considerare i costi economici e umani delle guerre americane dopo l’11 settembre per cogliere l’assoluta follia di tale strategia. Secondo il Costs of War Project della Brown University le guerre combattute dagli USA in questo secolo sono costate 8.000 miliardi di dollari e hanno prodotto centinaia di migliaia di vittime civili, migliaia di soldati americani morti e altre centinaia di migliaia che soffrono di traumi cerebrali e disturbi da stress post-traumatico. E a che pro? In Iraq gli USA hanno aperto la strada a un regime confessionale che ha creato le condizioni affinché l’ISIS attecchisse e si impossessasse di rilevanti parti del paese, per poi essere ricacciato indietro (ma non completamente sconfitto) con costi alti in termini di vite ed economici. Intanto in Afghanistan, dopo un conflitto condannato a fallire non appena si è trasformato in un’esercitazione di nation-building e in un’operazione di controinsorgenza su larga scala, i talebani sono al potere. Insomma è difficile immaginare un più sonoro atto d’accusa nei confronti della politica della guerra senza fine.
Nonostante il ritiro americano dall’Afghanistan, per cui l’amministrazione Biden si è meritata ampio riconoscimento, la spesa per le operazioni di antiterrorismo globale resta elevata, grazie alle missioni ancora in corso da parte dei corpi per le Special Operations, ai ripetuti attacchi aerei, ai persistenti aiuti e addestramento militari agli alleati e ad altre forme di partecipazione a guerre a bassa intensità. Presentatasi l’opportunità di ripensare la strategia USA, nel quadro di una revisione “del documento di posizionamento strategico globale” pubblicata lo scorso anno, l’amministrazione Biden ha optato per un approccio legato in maniera significativa allo status quo, insistendo sul mantenimento di importanti basi in Medio Oriente, mentre incrementava moderatamente la presenza di truppe americane in Estremo Oriente.
Come sa chiunque segua le cronache, nonostante i titoli pubblicati immediatamente dai giornali circa l’invio di truppe e aerei in Europa orientale e di armi all’Ucraina per rispondere alla mobilitazione di truppe russe sui confini del paese, la narrazione dominante usata per tenere i bilanci della Difesa agli attuali livelli resta: Cina Cina Cina. Conta poco che le maggiori sfide lanciate da Pechino siano politiche ed economiche e non militari. La “minaccia inflazione” attribuita a quel paese per il Pentagono resta la chiave più efficace per acquisire ancor più risorse ed è stato agitato in continuazione, tra gli altri, da analisti e organizzazioni legate strettamente all’industria bellica e al Dipartimento della Difesa.
La National Defense Strategy Commission, ad esempio, un organo di nomina del Congresso incaricato di esaminare il documento strategico ufficiale del Pentagono, ha attinto oltre metà dei suoi membri dai consigli di amministrazione dei grandi gruppi che producono armi, dai consulenti dell’industria bellica o da think tank sovvenzionati massicciamente dai fornitori della Difesa. Non sorprende che la commissione abbia fatto appello a un aumento annuo tra il 3% e il 5% del bilancio del Pentagono nel prossimo futuro. Quella prescrizione, secondo un’analisi di Taxpayers for Common Sense, significa che spenderemo mille miliardi di dollari l’anno a partire da metà di questa decade. In altre parole quell’aumento si rivelerà insostenibile per un paese in cui c’è bisogno di tanto altro, ma ciò non impedirà ai falchi del bilancio del Pentagono di usare quell’indicazione come la propria stella polare.
A marzo è attesa la pubblicazione del nuovo documento sulla strategia di difesa nazionale e del bilancio 2023 del Pentagono. C’è qualche piccolo spiraglio di speranza, ad esempio voci secondo cui l’attuale amministrazione potrebbe abbandonare alcuni pericolosi (e inutili) programmi di armi nucleari istituiti dall’amministrazione Trump.
Ma la vera sfida – scrivere un bilancio dello Stato che affronti i veri problemi di sicurezza come la salute dei cittadini e la crisi climatica – richiederebbe freschezza di pensiero e una persistente pressione dell’opinione pubblica per colpire il bilancio del Pentagono e allo stesso tempo ridurre la stazza del complesso militar-industriale. Senza un significativo cambio di rotta il 2022 sarà ancora una volta un’annata straordinaria per Lockheed Martin e gli altri maggiori produttori di armi, a discapito degli investimenti in programmi necessari per affrontare le sfide più urgenti: dalla pandemia al cambiamento climatico fino alle diseguaglianze globali.
SMACO: l’impossibile sminamento del deserto
Dal 1975 ci sono più di 7 milioni di mine nel territorio del Sahara occidentale. Mine di ogni tipo, mine antiuomo, anticarro, mine a grappolo. Ci sono manufatti e resti di esplosivi e residuati. Lo sminamento è diventato quasi impossibile per la mancanza di risorse e la fine del cessate il fuoco.
ELENA RUSCA (testo e immagini), 23 febbraio 2022
A pochi chilometri dall’Europa, il territorio del Sahara occidentale è stato minato fin dagli anni ’70 dallo Stato del Marocco per un tratto di oltre 2.700 chilometri per fermare il movimento di liberazione nazionale Saharawi. Questo tentativo è stato attuato combinando una “linea difensiva” con un muro discontinuo, che impedisce al Popolo Saharawi di autodeterminarsi e di essere uno Stato, consentendo al Marocco di governare in questa parte d’Africa, per il diritto internazionale illegittimamente.
La missione di sminamento umanitario doveva concludersi nel corso dell’anno 2023, tuttavia la fine del cessate il fuoco e la mancanza di risorse rendono questo compito praticamente irrealizzabile.
SMACO: sminamento in mezzo al deserto
L’Ufficio Saharawi per il Coordinamento delle Attività Relative alle Mine Antiuomo (SMACO) è stato creato con un decreto nel 2003 con la partecipazione dell’UNMAS (United Nations Mine Action Service).
Attualmente SMACO opera nella capitale amministrativa dei campi, Rabouni, raccogliendo dati con operazioni svolte nel deserto.
Questo ufficio ha il compito di coordinare lo sminamento in tutti i Territori Liberati. È sovvenzionato da diverse entità internazionali (paesi scandinavi e spagnoli), sussidi che provengono dall’UNMAS.
SMACO partecipa alla Convenzione di Ottawa
La Convenzione sulla messa al bando delle mine antiuomo (la denominazione completa è Convenzione sulla proibizione dell’uso, stoccaggio, produzione e trasferimento di mine antiuomo e sulla loro distruzione, nota anche come Convenzione di Ottawa) è un trattato internazionale di disarmo che vieta l’acquisizione, la produzione, lo stoccaggio e l’uso di mine antiuomo.
La Convenzione è stata adottata a Oslo il 18 settembre 1997, aperta alla firma il 3 e 4 dicembre 1997 a Ottawa e depositata il 5 dicembre dello stesso anno a New York davanti al Segretario Generale delle Nazioni Unite. È entrata in vigore il primo marzo 1999.
La Convenzione è stata negoziata per porre rimedio alle carenze del Protocollo II (sui divieti o restrizioni all’uso di mine, trappole esplosive e altri dispositivi) della Convenzione su alcune armi convenzionali, che molti Stati hanno ritenuto inadeguato per rispondere efficacemente alla sfida di un totale divieto delle mine antiuomo.
Oltre a questa partecipazione, il 6 gennaio 2019, sotto la supervisione delle Nazioni Unite, il Fronte Polisario ha effettuato la distruzione di 2.485 mine antiuomo (Anti Personnel) immagazzinate dall’Ufficio Saharawi per il Coordinamento dell’Azione contro le Mine (SMACO) secondo il Geneva Call Deed of Commitment (Geneva Call è una ONG con sede in Svizzera), che vieta le mine AP, firmato dal Fronte Polisario nel 2005. È stata l’ottava e ultima distruzione di questo tipo da quando il Fronte Polisario ha firmato il Deed of Commitment, per un totale di 20.493 mine AP accumulate distrutte dall’inizio a oggi.
Le mine italiane uccidono ancora
L’Italia è tra le prime dieci nazioni al mondo per esportazioni di armi: elicotteri da guerra, bombe, cannoni, siluri, razzi, missili, aerei, navi, sottomarini.
Sono veramente troppe le aziende italiane che producono ed esportano armamenti. Tra le tante, le più conosciute: Leonardo (ex Finmeccanica, che comprende AgustaWestland, Oto Melara, Wass, Mbda, Selex); Fincantieri; Beretta. Le banche (UniCredit, Intesa, Deutsche Bank, Bnp Paribas ecc.) seguono da vicino il finanziamento di queste aziende italiane.
Tra le varie produzioni il fiore all’occhiello della produzione italiana restano proprio le mine antiuomo. Non è un caso, infatti, che la maggior parte delle mine che si trovano sul territorio del Sahara Occidentale siano italiane (19%, la percentuale più alta subito dopo quelle russe).
In Italia è stato depositato un disegno di legge che sancirebbe definitivamente l’introduzione di limitazioni alla fabbricazione di armamenti. Purtroppo però l’iter di discussione di questo ddl è fermo ormai indefinitamente da 11 anni nel limbo del Parlamento italiano.
L’iter legislativo, avviato nel 2010, era rivolto all’introduzione di “misure per contrastare il finanziamento delle imprese produttrici di mine antipersona, di munizioni e submunizioni a grappolo”.
La situazione attuale
Prima della fine del cessate il fuoco a est del muro nel Sahara occidentale c’erano più di 22 milioni di mine, manufatti e resti di guerra. L’area più contaminata si trova intorno ai primi 5 chilometri del muro, denominata buffer zone (zona cuscinetto): 14.790 chilometri quadrati contaminati a 5 chilometri dal muro.
Attualmente sono 2.889 le vittime totali delle mine antiuomo, tra morti e feriti. E a tutt’oggi si continuano a registrare esplosioni di mine e altri residuati esplosivi, oltre alle vittime.
Nel frattempo i marocchini hanno continuato a minare quella zona. SMACO, infatti, ha trovato mine risalenti al 2012, ben prima della fine del cessate il fuoco.
Con la fine del cessate il fuoco i luoghi che la SMACO aveva sminato in questi anni sono stati ricontaminati. In particolare nella zona cuscinetto, a 5 km dal muro. Da allora tutti i lavori di sminamento sono stati bloccati. Una volta ripreso il conflitto il Fronte Polisario[1] ha chiesto alle ONG presenti sul territorio, SafeLane Global e il Danish Refugees Council, di lasciare quei territori. I droni marocchini continuano a sganciare bombe a grappolo che si trasformano in mine e contaminano nuovamente i territori sminati.
Adesso il numero delle vittime di queste mine continua a crescere ma non c’è più nessuno che possa annotare le cifre.
In questi anni la SMACO era riuscita a bonificare 149,62 milioni di metri quadrati dei Territori Liberati, di cui 11.005 km di piste percorribili (comprese quelle tra i campi minati).
Ma purtroppo il compito dello SMACO non può più essere svolto da nessuno.
Da un lato, la mancanza di risorse e la fine del cessate il fuoco significano, appunto, che nessuno può svolgere quel lavoro. D’altra parte, il fatto che il Marocco non partecipi alla Convenzione di Ottawa rende anche il compito più difficile e praticamente impossibile sminare adeguatamente l’area.
“I sahrawi dovrebbero godere della libertà di movimento senza temere le mine e i residuati bellici”, ci dice Sidi Mohamed Mulazeyn, da gennaio nuovo direttore dello SMACO. Sembra però lontanissimo il tempo in cui i Saharawi potranno tornare nei loro territori in piena libertà e senza il pericolo di esplodere su una mina.
[1] Il Fronte Popolare per la Liberazione di Saguía el Hamra e Río de Oro, noto anche come Polisario, si batte per l’autodeterminazione del popolo del Sahara occidentale e la fine dell’occupazione da parte del Marocco dei territori Saharawi.