Capitalismo morente? Lo dicono i capitalisti…

Due editoriali, uno su Milano Finanza e l’altro di Industria Italiana, esortano la borghesia italiana a smettere di piangere e a riorganizzare un sistema economico ‘moribondo’ a causa delle proprie interne contraddizioni prima che queste esplodano nella società imponendo cambiamenti sgraditi. Mentre a sinistra la strategia dei soliti intellettuali menopeggisti è difendere Conte dagli ‘agguati’.

MARCO VERUGGIO, newsletter 12 maggio 2020

Se lo avesse scritto chiunque altro che il capitalismo è praticamente morto, gli avrebbero dato del vetero. Se lo dice Maurizio Novelli, gestore di Lemanik Global Strategic Fund, un fondo d’investimenti svizzero che gestisce asset per un valore di 30 miliardi di euro, il suo articolo finisce su Milano Finanza, ironia della sorte, proprio nell’anniversario della nascita di Karl Marx, e risuona come un monito alle classi dirigenti investite dalla pandemia e dalla recessione.

Le osservazioni di Novelli del resto riflettono il tentativo di alcune menti lucide della borghesia italiana di elaborare una visione strategica che risponda alle esigenze del capitalismo nazionale e alle incognite del lungo periodo, in una società ormai segnata dalla dittatura del breve termine. Un tentativo inteso a colmare l’evidente incapacità, anche nei partiti politici che formalmente si richiamano ai valori dell’impresa e del mercato, di svolgere quel compito e a cui non fa riscontro un’analoga riflessione sul  versante della sinistra e dei lavoratori. E così, intanto che finanzieri come Novelli spiegano come sfruttare le opportunità offerte dalla crisi per imporre, come vedremo, la loro ‘rivoluzione dall’alto’ e il neoeletto presidente di Confindustria esplode la prima cannonata, chiedendo di fatto la cancellazione dei contratti di lavoro, Luciana Castellina e Marco Revelli e il solito codazzo di ‘intellettuali di sinistra’ si stringono a difesa di Conte, lanciando sulle colonne de Il Manifesto l’ennesima crociata menopeggista della loro lunga carriera, a dimostrazione che non per tutti il metodo per tentativi ed errori è efficace.

Quello che per Novelli è andato in cortocircuito è lo stesso meccanismo di fondo del capitalismo, cioè il processo di valorizzazione del capitale che consente di remunerare gli investimenti: ‘Il sistema ha bisogno di grandi capitali per essere sostenuto ma non può remunerare questi capitali perché altrimenti fallirebbe. I Governi hanno bisogno di fare più debito per sostenere l’economia ma il capitale richiesto per finanziare il debito non può essere remunerato poiché renderebbe il debito non sostenibile. Le aziende hanno bisogno di emettere debito per finanziarsi ma non possono permettersi di pagare tassi tanto diversi rispetto a quelli dei governi perché anche per loro il debito sarebbe non sostenibile’. In parole povere: ‘Se la mia propensione al rischio non viene più remunerata perché dovrei finanziarti ? La propensione al rischio di chi deve finanziare un economia a tassi zero o negativi è pari al livello dei tassi: cioè zero’.

L’origine del problema, secondo il finanziere, sta nell’inversione dei ruoli tra produzione e finanza. Se la finanza, infatti, nasce come strumento per fare credito all’economia reale, col passare del tempo e anche a seguito della stagnazione produttiva, le proporzioni tra capitale fittizio, la pura emissione di titoli di credito per la speculazione, e capitale finalizzato alla produzione, finiscono per invertirsi: ‘Oggi il settore finanziario “fa leva” 4/5 volte sull’economia reale per ottenere rendimenti che l’economia reale non riesce più a produrre, così come le banche nel 2008 facevano leva 40 volte sul capitale per ottenere rendimenti che l’attività caratteristica non poteva dare’. Ne deriva che oltre alle aziende che hanno un mercato e fanno profitti è necessario tenere in piedi una pletora di attività inevitabilmente in perdita, ma che servono ad alimentare la roulette delle borse e a tenere in piedi un sistema per cui vengono aboliti il rischio e dunque, in qualche misura, la remunerazione del capitale: ‘Se tutti coloro che partecipano a questo meccanismo devono essere sempre salvati, indipendentemente dai rischi che decidono di prendere, è normale che poi il capitale di rischio non può pretendere una remunerazione’.

In altre parole, secondo l’analisi paradossale ma efficace di Novelli, l’economia reale non è in grado di sostenere la mole di titoli emessa quotidianamente sui mercati finanziari, per un verso perché la domanda è da tempo in calo costante, per un altro perché quella massa di transazioni finanziarie è comunque sovradimensionata e non fa che creare debiti che nel momento stesso in cui vengono emessi sono già destinati a non essere rimborsati e a scaricarsi, prima o poi, sugli Stati e sulle banche centrali: ‘Nell’ultimo ciclo espansivo il debito nel sistema internazionale è cresciuto del 110% ma il PIL mondiale è cresciuto solo del 46%. Per ottenere un Dollaro di PIL abbiamo fatto 2,4 Dollari di nuovo debito. (…) Il motivo per cui il PIL cresce sempre meno a fronte di sempre più debito è perché una parte rilevante di questo nuovo debito serve per fare finanza (leverage) e non per fare investimenti nell’economia reale’. Dunque, conclude Novelli: ‘è giusto che il sistema venga nazionalizzato e che la redditività del capitale di rischio faccia la fine che ha fatto in Giappone, dove la Banca Centrale sostiene il sistema ma il capitale non viene remunerato. I capitali Giapponesi infatti vengono investiti prevalentemente sui mercati esteri e il QE Giapponese non è utile all’economia interna’.

C’è un’unica eccezione a questa dinamica deflazionistica e sono gruppi come Amazon, Apple, Facebook e Microsoft e che questi siano un’eccezione ha due ragioni: la prima è che si tratta di aziende che operano in regime monopolistico od oligopolistico, la seconda che, proprio in virtù di questa loro posizione, non pagano tasse proporzionate ai loro profitti. Quest’ultima constatazione secondo Novelli confermerebbe ‘che questo sistema capitalistico non ha quasi più nulla di capitalismo’. Qui sta il vero punto debole dell’analisi, che tuttavia, più che a ragioni analitiche è attribuibile alla difesa ideologica di un sistema di cui il finanziere sembra cantare il de profundis, ma a cui in realtà deve tutto. La dinamiche descritte da Novelli infatti non sono altro che le estreme conseguenze di quella che agli inizi del XX secolo è stata definita la fase monopolistica del capitalismo e che, a sua volta, è frutto della tendenza del capitale a concentrarsi in un numero sempre più ridotto di mani per compensare quella che Marx definì la caduta tendenziale del saggio di profitto, cioè la tendenza alla perdita di redditività degli investimenti.

A essere moribondo insomma non è il capitalismo, ma la narrazione del capitalismo come economia fondata sulla concorrenza perfetta, in cui tutti gli operatori possono ‘competere’ alla pari e vedere ricompensata la propria iniziativa, il proprio merito e la propria propensione al rischio. Il capitalismo monopolistico, cioè il capitalismo praticabile nelle condizioni concrete del mondo attuale, è piuttosto la progressiva cancellazione della competizione, la negazione della meritocrazia e, come abbiamo visto, della remunerazione del rischio. Ma da Novelli non possiamo pretendere che si spinga fino a questo punto.

Nonostante sia stato pubblicato da Milano Finanza l’articolo citato ha, in realtà, un carattere squisitamente politico. A Novelli non sfuggono, ad esempio, le ricadute geopolitiche del corto circuito che investe il processo di valorizzazione del capitale. Parlando del crollo delle quotazioni del petrolio il finanziere fa notare che la politica estera americana degli ultimi vent’anni ha perseguito l’indipendenza energetica degli USA investendo su shale gas e shale oil (produzione di gas e petrolio da roccia scistosa), investimenti che, però, per essere remunerati hanno richiesto la destabilizzazione dei principali paesi dell’OPEC, in particolare in Medio Oriente e in America Latina: ‘Anche la recente crisi del settore petrolifero evidenzia e conferma una degenerazione di fondo. Gli Stati Uniti, dopo gli attentati alle Torri Gemelle hanno deciso di perseguire l’indipendenza energetica dall’area mediorientale, per fare questo hanno investito centinaia di miliardi nel settore shale oil che però ha bisogno di un prezzo del petrolio ad almeno 50 USD solo per non perdere. Per sostenere prezzi così alti è stato necessario mettere fuori mercato importanti paesi produttori come Iran, Libia e Iraq, chiedere all’Arabia Saudita di tagliare la produzione in cambio di un appoggio militare nello scontro con l’Iran e mantenere il Venezuela in una sorta di agonia politica e tecnologica che incide notevolmente sulle potenzialità produttive del paese. Molte scelte geopolitiche hanno queste motivazioni e la destabilizzazione di alcune aree del mondo, con effetti anche sui flussi migratori in corso, sono la conseguenza di questa strategia’.

Ma, soprattutto, è ‘politica’ la conclusione: ‘Se non ci sarà la lungimiranza di modificare le regole del gioco con un cambiamento guidato dall’alto, c’è il rischio evidente che il cambiamento venga imposto dal basso, con evidenti conseguenze poco piacevoli per tutti. Purtroppo la storia insegna che chi detiene la posizione dominante è sempre restio a rinunciare a qualcosa e cerca di mantenere tale posizione fino alla fine. Se anche questa volta si cercherà di proseguire con queste regole del gioco ci dobbiamo attendere elevata instabilità economica e sociale per il decennio che si apre con questa crisi’. O una riorganizzazione del capitalismo dall’alto, quindi anche usando una dose di autoritarismo, o la possibilità di una mobilitazione sociale contro il capitalismo.

L’articolo di Novelli può essere considerato, pertanto, come l’invito a mettere in campo una perestroika intesa a riformare il funzionamento del capitalismo per evitare che soccomba. Qualche giorno prima, il 23 aprile, anche il direttore di Industria Italia, Filippo Astone aveva usato la metafora della ‘morte del capitalismo’ in un editoriale intitolato, appunto, ‘Per risorgere dal COVID-19 bisogna pensare a crescita economica e politica industriale. O il ‘new normal’=tragedia’. Astone invitava gli imprenditori a ‘fare la loro parte e smetterla di piangere’, perché l’attuale crisi potrebbe essere una ‘formidabile occasione per elaborare e attuare una politica industriale finalizzata alla crescita dell’Italia, utilizzando le esperienze positive degli Stati Uniti di Obama, di Israele e della Germania dei suoi anni migliori. Per costringere la politica e le classi dirigenti a fare delle scelte. A tracciare un solco in grado di indicare e facilitare una strada alle imprese’.

Come ho osservato all’inizio ad appelli come questi dovrebbe rispondere una strategia della sinistra e del movimento sindacale affinché il ‘cambiamento dal basso’ ci sia davvero e rifletta le esigenze dei lavoratori che oggi, grazie al COVID-19, tornano al centro della scena per aver assicurato che la nostra società continuasse a funzionare anche nei momenti peggiori. Tanto più che cavalcare le possibili tensioni sociali derivanti dall’esplodere di contraddizioni insolute non è una prerogativa della sola sinistra. Uno spazio lasciato vuoto non potrà che essere riempito da altri.

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