8 MARZO Contro il gender gap? Salario minimo!

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La discriminazione di genere ha molte radici, materiali e culturali, ma certo tra queste ultime pesano in modo particolare il fenomeno del divario salariale e la maggior difficoltà che le donne hanno ad accedere al lavoro e, in particolare, al lavoro full-time. Eppure del problema si discute soprattutto concentrandosi sul tema della rappresentanza femminile nei ruolo apicali.

In una società che tende a misurare tutto in termini economici uno degli indicatori più significativi per analizzare la discriminazione di genere è il cosiddetto gender pay gap, il divario salariale di genere. In tutto il mondo le donne, come più in generale i settori meno protetti della nostra società – immigrati, giovani ecc. – ricevono compensi significativamente inferiori ed è un fenomeno che, nonostante la condanna unanime e l’introduzione di sempre nuove misure per contrastarlo, si riduce a un ritmo tale che per raggiungere la parità retributiva tra uomini e donne secondo il Global Gender Gap Report 2020 del World Economic Forum ci vorranno 257 anni.

L’Italia presenta una situazione particolarmente critica: sui 153 paesi presi in considerazione dal rapporto del WEF si trova al 95esimo posto nella classifica dei paesi con una più alta partecipazione delle donne al mercato del lavoro e al 125esimo per quanto riguarda l’uguaglianza salariale a parità di mansioni. In Italia secondo il Gender Gap Report 2020 dell’Osservatorio Job Pricing (da cui sono tratte le grafiche utilizzate in questo articolo) la differenza retributiva a parità di lavoro in base al genere è di oltre 3.000 euro l’anno, circa il 10%: in pratica, hanno calcolato gli autori del Rapporto, è come se una donna ricevesse lo stesso salario di un collega uomo ma cominciasse a essere retribuita a partire dal 6 febbraio di ogni anno. Restringendoci al settore privato l’Italia risulta avere un divario di genere tra i più alti in Europa, un differenziale del 20,2%. In questo ambito, a differenza di quanto potremmo aspettarci, la parità è più vicina nei paesi dell’Europa orientale, baltici e scandinavi (in Croazia e Slovenia il gender pay gap è rispettivamente al 6,1% e all’8,5%), mentre paesi mediterranei ed Europa centrale si contendono il primato negativo, appannaggio della Germania col 22,7% (ma anche Olanda e Gran Bretagna fanno registrare dati peggiori dell’Italia).

Per quanto riguarda il tema dell’accesso al lavoro la Figura 1 riassume la situazione italiana: nonostante le donne siano circa 1,5 milioni più degli uomini, gli uomini “occupati” e quelli “occupati o in cerca di occupazione” (forze di lavoro) le superano di circa 3,5 milioni di unità, ragion per cui il tasso di occupazione femminile è inferiore a quello maschile, mentre il tasso di disoccupazione è superiore (sia quello aggregato che la disoccupazione giovanile). Secondo il rapporto Censis 2019 sulla salute del paese l’Italia è all’ultimo posto tra i paesi europei per quanto riguarda il tasso di occupazione femminile, mentre l’OCSE ci pone al settimo posto nel mondo e al terzo in Europa in base al tasso di disoccupazione femminile. Un problema che si manifesta in forma paradigmatica nello sport, dove il professionismo è prerogativa esclusiva degli uomini, mentre le donne, pur potendo essere pagate, non vengono riconosciute come sportive di mestiere e dunque non godono delle protezioni conseguenti (ad esempio la tutela della maternità). Questo è un primo aspetto di fondo del divario retributivo di genere: la massa salariale complessiva destinata alla forza-lavoro femminile è inferiore perché per una donna è più difficile accedere al mercato del lavoro. La pandemia ha accentuato questa divaricazione, perché soltanto durante il lockdown della scorsa primavera l’occupazione e la disoccupazione femminile sono rispettivamente la prima diminuita di 7 volte e la seconda cresciuta di quasi quattro rispetto agli omologhi dati maschili. I dati internazionali inoltre indicano che le donne rappresentano la maggioranza del personale collocato in smart working e questo le rende più soggette alla perdita di occupazione e salario che si sta registrando in molti paesi al momento del rientro in azienda. D’altro canto gli investimenti sulla digitalizzazione, che dovrebbero rappresentare una delle vie d’uscita dalla crisi, rischiano di vedere le donne ulteriormente penalizzate, dal momento che queste rappresentano una minoranza nella facoltà universitarie tecnico-scientifiche.

FIGURA 1: Gender Gap e partecipazione al mercato del lavoro

Una delle cause strutturali del divario salariale di genere è il numero di ore lavorate. Come mostrano i dati della Figura 2 circa una donna su tre ha un contratto part-time, mentre tra gli uomini siamo sotto al 10% e negli anni le lavoratrici a tempo parziale sono cresciute stabilmente aumentando di 550.000 unità in otto anni, un fenomeno perlopiù involontario e legato alla recessione che ha colpito l’Europa nel 2009.

FIGURA 2: Gender Gap e orario di lavoro

Quando non è involontario e legato a scelte aziendali il ricorso al part-time femminile ha un’altra causa principale: come mostra il grafico dell’OCSE in Figura 3 in Italia le donne dedicano 3,37 volte più tempo degli uomini (è il sesto dato più alto) al lavoro di cura – casa e bambini – non retribuito nonostante contribuisca a una funzione fondamentale come la riproduzione della forza-lavoro (mantenimento della vecchia forza-lavoro già presente in famiglia e generazione di nuova attraverso i figli).

Figura 3: Gender Gap e lavoro di riproduzione

Un’ulteriore componente del divario salariale di genere è la minore probabilità di avanzamenti di carriera per una donna, che è un dato generale, ma, come indica la Figura 4, tocca le punte più elevate nel settore privato. I dati nella parte inferiore evidenziano anche che il problema del pay gap colpisce di più i gradi inferiori delle gerarchie aziendali, operai e impiegati piuttosto che quadri e dirigenti.

Figura 4: Gender Gap e carriera

Infine il divario salariale di genere si articola in modo peculiare nei diversi settori dell’economia in base alla composizione di genere della forza-lavoro. La Figura 5 illustra questa articolazione indicando paga media lorda per genere, gap salariale ed evidenziando le industrie in cui  la forza-lavoro femminile supera il 40% di quella totale. Come si può vedere in tutti i settori in cui la presenza femminile è rilevante il gender gap penalizza in modo particolare le donne, mentre le attività in cui la bilancia pende a loro favore sono in genere quelle dove la manodopera è in larghissima maggioranza maschile, ad esempio nell’edilizia e nella siderurgia, dove la stragrande maggioranza dei dipendenti sono operai, mentre le donne costituiscono un’esigua minoranza perlopiù con funzioni impiegatizie e amministrative.  Se guardiamo alla parte alta della tabella, poi, vedremo che tolto il settore finanziario (banche e assicurazioni) e quello della consulenza, con numeri relativamente ridotti e una prevalenza, pur lieve, di uomini (i bancari sono ormai meno di 300.000, di cui il 55% uomini), i servizi alla persona (RSA, cooperative sociali, centri per minori, immigrati ecc.) e i servizi integrati alle imprese (pulizie, portieraggio), quelli in cui la presenza femminile è largamente maggioritaria (mentre i pochi uomini tendono a occupare ruoli direttivi), sono anche quelli con un pay gap più ampio (e, aggiungiamo, anche con le retribuzioni più basse).

Figura 5: Gender gap e settore produttivo

Questi dati evidenziano come la sfera del lavoro costituisca allo stesso tempo uno degli ambiti in cui la discriminazione di genere si manifesta in modo più evidente e anche uno dei principali luoghi in cui vanno ricercate le cause del problema. Come mostrano i dati la discriminazione ai danni delle donne si manifesta prevalentemente come difficoltà di accedere alle opportunità (ingresso nel mercato del lavoro, occasioni di carriera) e differenziazione retributiva (sia in termini assoluti che legata al numero di ore lavorate). Ai livelli inferiori della scala sociale questo secondo aspetto tende a manifestarsi in modo più accentuato, mentre viene compensato man mano che si sale dalle mansioni operaie e impiegatizie a quelle direttive. Procedendo verso i vertici della scala sociale la penalizzazione che le donne pagano più che in termini di ricchezza si manifesta come minore possibilità di accedere a ruoli di potere. In altre parole per una donna è più difficile diventare dirigente d’azienda, ma se riesce a raggiungere quella posizione la penalizzazione economica rispetto ai colleghi maschi è inferiore a quella che caratterizza i livelli inferiori. Un aspetto da sottolineare rispetto a quest’ultimo punto è che nonostante le critiche rispetto alla carenza di rappresentanza femminile colpiscano prevalentemente la sfera pubblica – si vedano le recenti polemiche sulla composizione di genere del governo Draghi – in realtà la pubblica amministrazione si dimostra di gran lunga più garantista: circa un terzo dei suoi ruoli apicali sono occupati da donne, più del doppio rispetto al settore privato.

I dati infine suggeriscono che per le donne che lavorano un aumento dei minimi salariali, sia attraverso la contrattazione sia con l’eventuale introduzione di un salario minimo legale intercategoriale, non potrebbe che avere un effetto positivo, per un verso ampliando la massa salariale complessiva indirizzata alle lavoratrici, per un altro riducendo la loro penalizzazione rispetto ai colleghi uomini. Lo conferma l’OIL, secondo cui “Il legame tra il salario minimo e la riduzione del divario salariale di genere è stato documentato in paesi assai diversi tra loro come gli USA e l’Indonesia. Come ha mostrato uno studio dell’OIL, ad esempio, l’introduzione del salario minimo nel 2012 nell’ex Repubblica Jugoslava di Macedonia può aver contribuito a ridurre il gender pay gap tra il 2011 e il 2014”. Negli USA, dove dopo la vittoria di Biden si è aperto (con esiti finora negativi) un dibattito parlamentare sull’aumento del salario minimo federale a 15 dollari, i dati dicono che già oggi il 59% degli attuali beneficiari del salario minimo sono lavoratrici e sono in molti a sostenere che il provvedimento contribuirebbe a ridurre le diseguaglianze di cui sono vittime donne e comunità nera.

D’altra parte il fatto che la discussione sul gender gap si concentri soprattutto sulla questione della rappresentanza piuttosto che sul salario e sull’accesso al lavoro è indicativo di come il problema venga affrontato soprattutto dal punto di vista delle classi dirigenti, su cui quell’aspetto pesa in misura assai maggiore, piuttosto che da quello delle lavoratrici e dei lavoratori. L’8 marzo ci sembra una buona occasione per ricordare che affrontare la discriminazione di genere sul piano delle sue cause materiali, che pur non esauriscono il problema, è un buon modo per cominciare a ridurre la portata del fenomeno per quella maggioranza di donne che ogni giorno, dopo essersi fatta carico del lavoro domestico, deve andare a lavorare in ufficio o in fabbrica per portare a casa uno stipendio.

L’articolo è tratto dalla newsletter di PuntoCritico.info del 9 marzo

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