Newsletter210818: Genova, di ‘libero mercato’ si muore

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La newsletter con cui riprendiamo le pubblicazioni dopo la pausa estiva non poteva che essere dedicata a Genova. Non ci saremmo immaginati di iniziare la stagione 2018-2019 in questo modo. Avremmo preferito farne a meno. Ma anche nella peggiore tragedia si nasconde un’opportunità. In questo caso ci auguriamo che il disastro di ferragosto sia la goccia capace di far traboccare il vaso di una reazione sociale all’idea che la vita delle persone, in particolare dei lavoratori e dei comuni cittadini, sia una variabile dipendente dei profitti aziendali. Come sempre esprimiamo dei giudizi, ma cerchiamo soprattutto di far parlare i fatti, i dati statistici, le argomentazioni scientifiche di contro alle tante parole a vanvera che abbiamo sentito in questi giorni. Negli articoli che seguono troverete la conferma che ciò che è accaduto il 14 agosto è la prevedibile conseguenza di scelte politiche senza scrupoli fatte e confermate negli anni, con impressionante cinismo, da un’intera classe dirigente, a prescindere dal colore politico. Eccezionalmente questo materiale viene pubblicato ‘in chiaro’ e può dunque essere letto da chiunque e diffuso. E’ il nostro piccolo contributo.


 

EDITORIALE Di ‘libero mercato’ si muore

La tragedia di Ponte Morandi a Genova è il più impietoso atto di accusa nei confronti di un’intera classe politica che a partire dai primi anni ’90 ci ha spiegato che mettere le nostre vite negli ingranaggi della Borsa e del mercato significa essere moderni o, nella versione di sinistra, che non c’è alternativa a quel modello. Non può essere comodamente derubricata a effetto di un capitalismo ‘all’italiana’ arretrato, familistico, che deve fare i compiti a casa e imparare da quello tedesco o anglosassone. Oggi infatti – come si riferisce nel primo articolo della newsletter –  un Istituto di Ricerca federale stima che in Germania i ponti stradali sicuri siano il 12% del totale e un architetto esperto nella costruzione di ponti dichiara a un quotidiano tedesco che il rischio di un crollo non può essere escluso. Anche i dati che provengono da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti attestano che i tagli alla manutenzione delle infrastrutture sono un fenomeno internazionale. Secondo l’OCSE siamo di fronte a una ‘tendenza generale al sottofinanziamento delle attività manutentive’ delle infrastrutture trasportistiche.

Questa tendenza non è un fenomeno inspiegabile, ma il semplice risultato di un banale principio economico valido a ogni latitudine: i costi di manutenzione in un’azienda privata si detraggono dai dividendi e dalle plusvalenze degli azionisti. Quindi un amministratore delegato che spende tanto per la sicurezza sottrae profitti a chi lo ha nominato e gli paga lauti compensi. Secondo il Sole24Ore120416 nel 2015 l’ingegner Castellucci, AD di Atlantia, la società che controlla Autostrade per l’Italia, ha incassato 6,22 milioni di euro lordi, di cui 2,74, meno della metà, è la parte fissa, mentre 1,54 sono stock option esercitate e 1,93 azioni gratuite attribuite. Insomma ogni euro destinato alla manutenzione Castellucci lo ha sottratto non solo ai propri datori di lavoro, ma anche a se stesso. Si potrebbe obiettare che la gestione privata può funzionare se c’è il controllo dello Stato, ma è come dire che potremmo lasciare le porte delle banche aperte anche di notte perché tanto la polizia vigila: chi più terrebbe i propri soldi in banca? Si potrebbe obiettare ancora che quando capitano tragedie come quella di Genova il mercato ti punisce, ma è chiaro che molte imprese scommettono sulla base di un cinico calcolo delle probabilità: per una volta che una viene punita quante volte invece riesce a farla franca?

Che cos’è successo a Genova non è necessario che ce lo dica la magistratura, che peraltro, attraverso il procuratore capo di Genova, Francesco Cozzi, un giudizio lo ha già espresso: ‘Non è stata una fatalità, ma un errore umano’. Un comune cittadino sa che se gli cade un vaso di gerani dal terrazzo e uccide un passante la responsabilità è sua, a meno che non sia intervenuto un fattore terzo, ad esempio un uragano o un terremoto. Nel nostro caso, anche se qualcuno c’ha provato a insinuare il dubbio, è evidente che un ponte non può crollare per colpa di un fulmine o della pioggia. Del resto la conferenza stampa dei vertici di Autostrade poche ore dopo i funerali di Stato di fatto equivale a un’ammissione di colpevolezza: o la società si era trasformata notte tempo da Spa a Onlus oppure non si capisce perché, non essendo responsabile, Autostrade dovrebbe spendere mezzo miliardo per risarcire le vittime, gli sfollati, l’ANAS e persino sospendere i pedaggi. E’ evidente che il tentativo è quello di ridurre i danni.

Tuttavia alla politica non spetta punire i colpevoli, bensì rimuovere le condizioni che hanno permesso alle cose di andare come sono andate. La soluzione quindi non è dare una lezione esemplare ai Benetton e sostituirli con un ‘padrone buono’, ma riportare le autostrade italiane sotto il controllo pubblico sottraendone la gestione alle regole del mercato e all’imperativo categorico del pareggio di bilancio. Qualunque giudizio sul Governo Conte non potrà che dipendere da ciò che farà nei prossimi mesi. Il tentativo del PD di attribuire al M5S la responsabilità politica di quanto accaduto è solo il patetico tentativo di coprire le proprie responsabilità. Come dimostriamo nel secondo articolo di questa newsletter infatti la generosa regalia di Autostrade ai Benetton, la proroga della concessione dal 2018 al 2042, la mancata vigilanza sul noto degrado del viadotto, la scelta di non demolire l’opera per sostituirla con un ponte sono tutte scelte politiche ascrivibili a governi e amministrazioni di centrosinistra con dentro i Bersani e i D’Alema, sostenute o partecipate e dalla ‘sinistra radicale’ e confermate dal centrodestra (qui sì con una responsabilità della Lega). Tutto il resto è pura chiacchiera.

Che il Governo vada avanti sulla strada della revoca della concessione è tutto da vedere e non solo perché al di sotto dell’unità di facciata la posizione di Di Maio e quella di Salvini non coincidono (e anche all’interno della Lega emerge qualche mal di pancia), ma soprattutto perché non è certo che la maggioranza giallo-verde sia sufficientemente forte da andare fino in fondo, rischiando di scatenare la reazione di un establishment che finora si è limitato a tenere sotto tiro il ‘governo del cambiamento’, ma non ha mai cercato seriamente di impallinarlo. In ogni caso resta il fatto che togliere la concessione a Benetton per darla a un’altra società privata significherebbe mantenere la rete autostradale italiana nel conflitto tra interesse pubblico e privato in cui la misero Prodi e D’Alema negli anni ’90, oltre che continuare a privarsi di miliardi di euro che potrebbero essere utilizzati proprio per metterla in sicurezza, modernizzarla e abbassare i pedaggi. La tutela dell’interesse pubblico richiede che la gestione sia pubblica e gestione pubblica non significa semplicemente che lo Stato deve tornare a essere formalmente il proprietario e il gestore delle autostrade, ma anche che va introdotta una qualche forma di controllo democratico in grado di contrastare la gestione pubblica a favore di interessi privati che caratterizza spesso le aziende di Stato. E nel nostro caso ciò vale ovviamente non solo per i 3mila chilometri gestiti di Benetton, ma per tutta la rete autostradale.

Come sottolineiamo nell’ultimo articolo di questa newsletter il crollo di Genova ha investito, ferito e commosso Genova e l’Italia intera, ma ancora una volta la mannaia si è abbattuta in particolare su dei lavoratori e su un quartiere proletario, ai margini di una delle storiche aree industriali della città. I morti ovviamente sono tutti uguali, a prescindere dalla loro estrazione sociale. Ma ciò non può farci sfuggire un aspetto determinante. La strage del 14 agosto ha colpito una comunità di persone che dagli anni ’80 prima ha pagato un prezzo altissimo alla privatizzazione dell’IRI e alla deindustrializzazione, poi ha sperimentato sulla propria pelle le conseguenze mortali della devastazione del territorio (le tre alluvioni del 2010,2011 e 2014) e della deregulation del lavoro in nome del mercato (il crollo del Museo del mare con la morte di un operaio albanese senza contratto, la tragedia della torre piloti, lo stillicidio di morti in porto) e negli anni passati però ha cominciato a dare segni di reazione. I lavoratori di aziende comunali come AMIU e di As.Ter e i camalli del Porto, che oggi piangono i loro colleghi sepolti dalle macerie, negli anni passati sono stati tra i più combattivi nel difendere il proprio lavoro ma allo stesso tempo anche il futuro della città. L’intervento dei primi è stato determinante nei momenti più drammatici delle alluvioni e poi per superare l’emergenza. Accanto a loro nel 2014 scesero in campo anche gli operai dell’ILVA, che oggi combattono la battaglia della vita per salvare 600 posti di lavoro. I portuali della storica Compagnia Unica Paride Batini nei giorni scorsi si sono detti disponibili a lavorare giorno e notte per salvare lo scalo genovese dalla paralisi delle attività dopo il crollo. Ai funerali di Stato i dipendenti di AMIU hanno deciso di partecipare in divisa concentrandosi nei giardini della stazione Brignole, a circa un chilometro dal luogo delle esequie, per arrivare tutti insieme a celebrare i propri colleghi morti. Hanno scelto insomma di prendere parte alla consueta passerella di alte cariche dello Stato, della Chiesa e del mondo degli affari, ma di esserci in veste di lavoratori, usando questa loro presenza per dare un segnale agli altri lavoratori genovesi e a un’intera città che negli anni ha imparato a conoscerne la combattività e lo spirito di servizio. Se oggi questa tragedia può in qualche misura aver aperto gli occhi a molti e se ciò può innescare una ribellione alla perversa religione dei dividendi non va sottovalutato il ruolo che questi lavoratori possono giocare come possibile punto di riferimento per chi è stufo di piangere morti evitabili, un punto di riferimento capace di fornire esperienze, organizzazione e parole d’ordine per trasformare la semplice reazione emotiva in azione capaci di strappare dei cambiamenti concreti. E anche per indicare una alternativa alla sinistra che ieri ha regalato le nostre autostrade ai compagni di merende e oggi si batte perché il Governo gliele lasci.

Marco Veruggio 


Viadotto di Gennevilliers, Francia

Non è una ‘storia italiana’

Una tentazione che traspare nelle ricostruzioni giornalistiche e nella polemica politica è quella di dimostrare che la catastrofe di Genova è il frutto di un capitalismo arretrato ‘all’italiana’. Ma l’OCSE parla di una ‘tendenza al sottofinanziamento delle attività manutentive’ nel settore dei trasporti come fenomeno internazionale.

Il collasso del ponte Morandi a Genova ha suscitato un dibattito internazionale, da cui risulta che il tragico evento non è il frutto di un’anomalia italiana. France24170817 tre giorni dopo il crollo titolava ‘Il collasso del ponte a Genova fa suonare l’allarme sulle infrastrutture europee che invecchiano’. Secondo Barry Colford, vicepresidente della AECOM e ingegnere capo del Fourth Road Bridge di Edimburgo, ‘I governi devono capire che questi ponti necessitano di ingenti manutenzioni. Questo è il messaggio che gli ingegneri hanno cercato di lanciare per molti anni. E se ciò non viene fatto avremo delle tragedie’. Ma la politica – aggiunge – ha un approccio alle infrastrutture da ‘taglio del nastro’. ‘Dico sempre che la manutenzione dei ponti non porta voti. Nel corso degli anni c’è stato un finanziamento inadeguato. E’ sempre stata una lotta e ciò vale sia che parliamo degli Stati Uniti che della Gran Bretagna e dell’Europa continentale’. ‘Purtroppo sembra che sia necessaria un a tragedia per far capire ai governi che bisogna spendere per le infrastrutture per minimizzare il rischio  di una tragedia’, conclude. Per France24 ponte Morandi è un ‘avvertimento ai politici di ogni paese’. Secondo un rapporto commissionato dal Ministero dei Trasporti francese il 17% delle rete stradale nazionale versa in ‘un significativo stato di degrado’, mentre il 7% necessita di lavori di ripristino, mentre in Germania nel 2017 uno studio dell’Istituto Superiore Federale di Ricerca Autostradale ha scoperto che solo il 12,5% dei ponti stradali è in buone condizioni, mentre il 12,4% è in cattivo stato. ‘I ponti malati non sono un problema esclusivamente italiano. Anche in Germania molte costruzioni presentano per certi versi ombre inquietanti. Finora nessun ponte è crollato mentre le auto transitavano. Ma di casi in cui c’è bisogno di intervenire ce ne sono in abbondanza’ ha scritto dopo il crollo di Genova la Hannoversche Allegemeine Zeitung. Richard J. Dietrich, architetto tedesco esperto in ponti, ha dichiarato ad HAZ ‘I nostri ponti sono pericolosamente degradati e il rischio di un crollo non può più essere escluso’.

Per quanto riguarda la Gran Bretagna all’inizio dell’anno un’indagine della RAC Foundation sulla condizione dei ponti britannici ha appurato che 3441 dei circa 1,5 milioni di ponti attualmente in esercizio non sono adatti a sostenere i più pesanti veicoli in circolazione, inclusi i camion fino a 44 tonnellate. Si tratta del 4,6% dei circa 75mila ponti presenti sulla rete stradale locale gestita dalle amministrazioni locali. Per Steve Goodding, presidente della RAC Foundation non si tratta di una notizia sorprendente, dal momento che il costo per realizzare tutti i lavori di manutenzione rimasti in arretrato nel tempo è aumentato del 30% negli ultimi anni (in valore assoluto circa un miliardo di sterline), mentre l’investimento complessivo delle amministrazioni comunali sui ponti in un anno è sceso del 18%, d 447 a 367 milioni di sterline.

I dati OCSE sulla manutenzione delle infrastrutture per il trasporto ci confermano le osservazioni precedenti, almeno per quanto riguarda  i paesi europei: in Gran Bretagna le spese per la manutenzione stradale dal 2006 al 2016 passano da 5,9 a 2,8 miliardi di euro; in Francia si mantengono stabili intorno ai 2,5 miliardi nonostante il degrado delle strade; in Italia addirittura scendono da 13,5 miliardi nel 2006 a 9 miliardi nel 2015 (il dato del 2016 manca, così come quello tedesco). Dunque una tendenza alla riduzione della spesa, in cui saltanop agli occhi due aspetti: il primo è che qui da noi la spesa per la manutenzione in un decennio si riduce di circa un terzo, il secondo è che la Francia, che ha una superficie di circa due volte l’Italia, spende tra un quarto a un quinto per la manutenzione della propria rete stradale. L’ITF Transport Outlook 2017 conferma che, aldilà delle specificità nazionali, ci troviamo di fronte a una tendenza generale al sottofinanziamento delle attività manutentive: ‘Man mano che lo stock e l’età delle infrastrutture cresce, per mantenerne la quantità e la qualità occorre uno sforzo sempre maggiore. Ma a dispetto di questa tendenza molti osservatori hanno sollevato preoccupazioni circa l’insufficiente finanziamento della manutenzione infrastrutturale. La manutenzione delle strade viene spesso rinviata con l’aspettativa che qualcuno la farà in futuro e che non ci sia il rischio di un immediato danneggiamento dell’opera’.

Questi dati, raccolti scorrendo rapidamente la stampa e alcune banche dati e rapporti internazionali, dimostrano che la tragedia del viadotto dell’A10 non può essere spiegata semplicemente come una ‘storia italiana’, manifestazione di un’incuria nazionale da paese del sud Europa, schiavo delle lobby, della mafia e di una politica non all’altezza della grande politica internazionale. E’ al contrario il risultato devastante di una tendenza mondiale al taglio dei costi di manutenzione delle infrastrutture di trasporto, in parte per la riduzione dei trasferimenti pubblici agli enti statali che le gestiscono, in parte invece a beneficio dei profitti degli azionisti privati delle compagnie private a cui i governi nazionali hanno in alcuni casi affidato la gestione di tali infrastrutture. Che l’Italia, ancora una volta, sia arrivata ‘prima’ nel raccogliere i frutti avvelenati di questa politica scellerata non può farci dimenticare che siamo di fronte alle conseguenze di un sistema economico che per funzionare richiede –  che si tratti di guerre, di fame o di catastrofi più o meno naturali – un sacrificio perenne di vite umane. 


Autostrade e Morandi: un pasticcio targato PD

Nonostante il patetico tentativo del PD di attribuire la responsabilità dei morti di Genova al M5S, l’intera responsabilità politica della privatizzazione della Società Autostrade e delle scelte in materia di viabilità a Genova pesa proprio sul maggiore partito del centrosinistra e su suoi alleati, inclusa la ‘sinistra radicale’. Ricostruiamo i fatti principali.

La privatizzazione della vecchia Società Autostrade, che porta oltre il 50% della rete autostradale italiana, inclusa la A10, nelle mani di Atlantia, gruppo controllato dalla famiglia Benetton quotato in Borsa, scaturisce da una richiesta fatta a metà degli anni ’90 dall’Unione Europea e viene preparata dal primo governo Prodi (1996-1998) e portata a compimento dal successivo Governo D’Alema, che conclude la vendita nel 1999. La vendita di Autostrade rientra nella più generale opera di privatizzazione delle aziende del Gruppo IRI, le cosiddette partecipazioni statali, inventate da Mussolini dopo la crisi economica del 1929 per salvare l’apparato produttivo e finanziario nazionale, vista anche la riluttanza del capitale privato a scommettere sulla ripresa. In quel momento a presiedere l’IRI è Gian Maria Gros Pietro, oggi presidente di Intesa San Paolo, a seguire la vendita delle aziende IRI è Mario Draghi, attuale presidente della BCE, mentre nella Commissione Europea che chiede all’Italia di vendere Autostrade siede, come Commissario per il Mercato Interno e i Servizi, Mario Monti.

Uno dei primi atti parlamentari in direzione della vendita è la riunione della Commissione Ambiente e Lavori Pubblici, che il 19 marzo 1997, approva, col solo voto contrario di Lega Nord e Verdi, uno schema di deliberazione predisposto dal Governo in vista della cessione della partecipazione all’87% del Ministero del Tesoro nella Società Autostrade. Rifondazione Comunista, che fa parte della maggioranza pur senza ministri, dà il via libera all’operazione. Primo Galdelli, vicepresidente comunista della Commissione, si limita a proporre due lievi modifiche al testo (Resoconto della riunione). Galdelli è un operaio della Merloni e il suo datore di lavoro, Francesco Merloni, democristiano eletto nelle file dell’Ulivo, siede anch’egli nella Commissione. La differente estrazione sociale non impedisce loro di votare nello stesso modo e per questo l’episodio diventa una metafora del ruolo della sinistra di governo. A maggio dello stesso anno il Governo, in cui siedono tra l’altro Pierluigi Bersani (Ministro dellì’Industria), l’ex Presidente della Regione Liguria Claudio Burlando (Trasporti), Rosi Bindi, Giorgio Napolitano e Valter Veltroni, dà il via ufficiale al processo di privatizzazione. Autostrade è una gallina dalle uova d’oro, sia perché è una fonte di liquidità attraverso i pedaggi sia perché la sua rete in fibra (3200 chilometri) la rende potenziale protagonista nel mercato della telefonia (progetto poi tramontato), sia, infine, perché è proprietaria della tecnologia telepass, che ha sviluppato per prima al mondo grazie alla collaborazione con la Olivetti. Ma ormai è diventato di moda (s)vendere ai privati ciò che è redditizio e mantenere in mano pubblica ciò che è fisiologicamente in perdita.

Un articolo di Repubblica020697 sintetizza in modo cosa c’è in ballo. Il controllo della rete autostradale è un boccone appetitoso per almeno due ragioni: gli ingenti flussi di cassa e il ‘peso politico’ che esso implica. Nei 30 anni precedenti la privatizzazione in Italia il parco auto e TIR è cresciuto di 5-6 volte contribuendo alla crescita degli introiti che lo Stato ricava dal sistema dei trasporti. ‘E’ stato calcolato che dal trasporto su gomma, per il traffico passeggeri e merci, tra tasse, accise, bolli e quant’altro, lo Stato incassa ogni anno circa 80 mila miliardi: che è come dire il 16% di tutte le entrate delle casse pubbliche. Di questo gran movimento le autostrade sono il sistema nervoso: chi le controlla ha per le mani una specie di enorme rubinetto che regola la circolazione di cose e persone da un angolo all’altro del paese’. Repubblica spiega anche che ‘il governo ha sempre deciso le tariffe ufficiali, quelle per il traffico “privato”, mentre Autostrade ha mano libera sugli sconti da concedere agli autotrasportatori ed è quindi responsabile per una grossa parte della capacità di sopravvivenza sul mercato di quella miriade di piccole ditte di autotrasporto comunemente definite “padroncini”. Questo spiega perché la privatizzazione vada avanti così a rilento, perché tra governo e Parlamento non si sia ancora fatta chiarezza sul come e, di conseguenza, sul quando’. Ciò significa che la vendita di Autostrade consegna a un grande gruppo privato una leva in grado condizionare in modo drastico migliaia di piccole imprese e, più in generale, una ampia fetta di piccola borghesia produttiva e commerciale orientata al mercato interno, che da quei padroncini dipende per la consegna della propria merce. Il che spiega la dura reazione dell’attuale Governo, espressione politica proprio di quei settori sociali, nei confronti dei Benetton dopo il disastro.

D’altra parte – continua Repubblica – cash flow e influenza politica sono in parte controbilanciati dal peso finanziario che il concessionario si dovrà sobbarcare per investimenti in nuove opere e manutenzione, che implica un forte indebitamento, in un periodo in cui i tassi di interesse medi superavano il 10%. Per questo la garanzia messa sul piatto da Prodi, caldeggiata da Draghi ma inizialmente osteggiata dalla Corte dei Conti, è la proroga della concessione ad Autostrade dal 2018 e al 2038, che fa crescere enormemente il valore della società. Dunque la vecchia concessione sarebbe scaduta lo scorso aprile, ma prima Prodi e l’anno scorso Delrio, ne allungano la durata al 2038 e poi al 2042. Dopo un periodo di decantazione in cui si avvicendano varie ipotesi di cessione – vendita a pezzi, azionariato diffuso, golden share, nocciolo duro al 30% – quest’ultima prevale e si fanno avanti i primi pretendenti tra cui i Benetton, ma anche Mac Donalds e un gruppo australiano. La vendita verrà effettuata dal Governo D’Alema nel 1999, sotto la gestione del prodiano Enrico Micheli (Lavori Pubblici) e con Pierluigi Bersani Ministro dei Trasporti. Schemaventotto, la società dei Benetton si aggiudica il 30% Autostrade (dal 2002 Atlantia) col consueto schema dell’acquisto a debito, cioè facendosi prestare buona parte dei soldi dalle banche e scaricando il debito conseguente su Autostrade, per cui le banche sono garantite dai pedaggi e in seguito sale al 63%. Nei sei anni successivi il valore dell’investimento si moltiplica per 6-7 volte attraverso una strategia basata sul costante aumento delle tariffe e la riduzione degli investimenti. La Relazione sull’Attività 2016 del Ministero dei Trasporti attesta che dal 2009 al 2016 la spesa per manutenzione ordinaria nell’intero comparto delle autostrade in concessione (di cui Autostrade rappresenta oltre il 50%) è diminuita da 707 a 646 milioni di euro l’anno, l’8,6%, un trend a cui contribuisce particolarmente il picco negativo del 2016, -7,3%, con Delrio Ministro dei Trasporti. Ma Autostrade per l’Italia fa peggio, tagliando la spesa per la manutenzione da 300 a 262 milioni tra il 2008 e il 2016 (-12,5%). Per chi volesse approfondire gli aspetti finanziari possiamo consigliare il volume di Giorgio Ragazzi del 2008, I signori delle autostrade, di cui il sito LaVoce.info ha pubblicato un interessante estratto  oppure il servizio trasmesso da Report nel 2004, a 7 anni dalla privatizzazione.

La convenzione stipulata nel 1999 tra l’ANAS e la Società Autostrade e quelle successive sono rimaste secretate fino a gennaio del 2018, quando il Ministro dei Trasporti Delrio ha deciso di pubblicare il testo dell’accordo in vigore, stipulato nel 2007 (secondo governo Prodi), a meno di alcuni allegati. Le ragioni di questa segretezza appaiono evidenti dalla lettura: si tratta di un contratto che tutela gli interessi di Atlantia a totale discapito dell’interesse pubblico, obbligando lo Stato, anche in caso di grave inadempienza da parte del concessionario, a un iter lungo e intricato per arrivare alla revoca e in ogni caso a ‘risarcirlo’ garantendogli i profitti che si presume avrebbe incassato dal momento della revoca della convenzione alla scadenza naturale. E’ il motivo per cui qualcuno sostiene che la decisione annunciata dal Governo di annullare la concessione a Autostrade costerebbe all’erario addirittura 20 miliardi di euro. L’indennizzo verrebbe meno nel caso in cui l’inadempienza costituisca reato, ma affinché sia verificata questa condizione bisognerà comunque attendere una condanna definitiva al termine di tre gradi di giudizio. Questo spiega anche l’atteggiamento di Autostrade, che riconosce implicitamente la propria responsabilità nella tragedia offrendosi di risarcire le parti danneggiate (le vittime, gli sfollati, ANAS, proprietaria del ponte crollato), ma in questo modo cerca di evitare una condanna penale che le toglierebbe potere di ricatto nei confronti dello Stato.

Nelle ore immediatamente successive al crollo il PD e i media hanno immediatamente polemizzato contro il M5S e la sinistra, accusate di aver ostacolato la realizzazione di un’opera autostradale, la gronda, che avrebbe potuto evitare la tragedia di Ponte Morandi. Un’accusa diffusasi rapidamente sul web e strombazzata con toni sanguigni, ma che è una colossale sciocchezza. La gronda autostradale di ponente è un progetto avviato di recente, dopo una lunga fase di discussione. Si tratta di una tangenziale che partendo dal casello di Genova ovest dovrebbe tracciare un arco a monte dei quartieri di ponente sbucando nella zona di Vesima, estrema propaggine occidentale della città. L’opera è finalizzata ad alleggerire il traffico sull’attuale tracciato della A10, permettendo a chi viaggia da levante a ponente di aggirarlo. Tuttavia il progetto della gronda non prevede che il tracciato attuale, Ponte Morandi incluso, sia demolito. Anche perché sull’attuale tracciato insistono tre caselli che, oltre a quartieri densamente popolati, servono il porto, l’aeroporto, la zona industriale (ILVA, Fincantieri, Ansaldo, aziende Finmeccanica). La costruzione della gronda quindi al massimo avrebbe permesso, una volta realizzata, quindi in tempi che non è dato prevedere, di alleggerire il traffico sul viadotto. Dunque che l’approvazione del progetto anni fa avrebbe evitato la tragedia è indimostrabile. Ma non basta. La discussione sul progetto si è prolungata nel tempo, perché al progetto originario di Autostrade sono seguite numerose obiezioni, non solo da parte dei comitati dei residenti nella zona interessata, ma anche da parte degli enti locali – Comune, Regione e Provincia – e di soggetti come il Politecnico di Milano, che hanno portato al moltiplicarsi del numero dei tracciati presi in considerazione per la bretella. Come spiega la relazione dell’urban center del Comune di Genova  il progetto iniziale di Autostrade prevedeva la demolizione di Ponte Morandi e la costruzione di un nuovo viadotto a 8 corsie. A questa ipotesi il Comune di Genova ha proposto come alternativa il mantenimento dell’attuale tracciato dell’A10 e il passaggio della gronda ‘alta’, con la costruzione di un secondo viadotto, qualche chilometro più in su del Morandi, all’altezza di Bolzaneto. La Regione Liguria invece ha proposto il passaggio della gronda a sud del Morandi e la sua demolizione. Una nuova proposta di Autostrade e il rilancio da parte del Comune hanno portato a 5 i tracciati possibili. Alla fine l’ipotesi approvata è stata sostanzialmente quella del Comune. L’opzione della ‘gronda alta’, col mantenimento di Ponte Morandi, è stata il cavallo di battaglia in particolare della sindaca Marta Vincenzi (PD), tanto che Repubblica120908 la chiama ‘la gronda di Marta’ e spiega come tale variante sia stata presentata ad ANAS e Autostrade con una lettera firmata dalla stessa Vincenzi, insieme all’allora Presidente della Regione Claudio Burlando (ex Ministro dei Trasporti di Prodi) e da quello della Provincia Alessandro Repetto, esponenti delle diverse correnti del PD. ‘“La costruzione di un ponte a sei corsie e l’abbattimento del Morandi comporterebbe il trasferimento di 867 famiglie e la rinuncia di 50 mila metri quadri di superficie produttiva per Ansaldo”, ha detto il sindaco spiegando perché l’ attuale viadotto, debitamente snellito riservandolo solo al traffico locale, potrebbe restare al suo posto’ – scrive Repubblica170908, omettendo di dire che una cospicua parte di quelle famiglie faceva parte del serbatoio elettorale della stessa Vincenzi, che è originaria proprio della Valpolcevera. Tutto ciò nonostante il fatto che già in quegli anni si parlasse di degrado della struttura. Nel 2006 Massimo Minella scriveva in un articolo intitolato ‘Autostrade liguri, le più pericolose’, che il Ponte Morandi ‘non può andare oltre dieci-quindici anni di vita per ragioni di sicurezza’ (Repubblica051206) e l’anno dopo il Ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro dichiarava allo stesso Minella che ‘il Morandi è ormai obsoleto e rischia di venire giù. Guardi, è successa una cosa simile nel mio Molise, ma se crolla in mezzo alle montagne è un conto, se succede qui è ben diverso’ (Repubblica290607).

Fatti e dichiarazioni citate confermano che la privatizzazione della Società Autostrade (in termini di assoluto favore per il concessionario) e la gestione del problema Morandi sono scelte la cui responsabilità pesa su governi e amministrazioni di centrosinistra guidate dal PD, con l’appoggio della ‘sinistra radicale’, ma anche con la fattiva collaborazione del centrodestra. La generosa convenzione tra ANAS e Autostrade nel 2007 viene firmata sotto il secondo Governo Prodi, ma entra in vigore l’anno successivo quando a Palazzo Chigi c’è Berlusconi. La proroga della concessione ad Autostrade al 2038 viene decisa dal primo governo Prodi nel 1998, ma viene confermata 10 anni dopo da Berlusconi, quando la vecchia Società Autostrade cambia assetto societario diventando Autostrade per l’Italia.

Anche la dis-informazione ‘di sinistra’ si è fatta sentire. Due giorni dopo la tragedia di Genova Radio Popolare pubblicava un editoriale di Luigi Ambrosio, intitolato ‘Una deriva pericolosa’, in cui si accusa il Governo di ‘aver montato una campagna di aggressione contro un gruppo industriale e, ancora più grave, contro delle persone in carne e ossa, i Benetton. È stato individuato il colpevole senza aspettare processi e sentenze della magistratura’. Il Manifesto ha pubblicato una serie di articoli su Genova in cui i giudizi critici nei confronti della società a dei suoi azionisti sono ridotti al minimo sindacale e il messaggio subliminale inviato ai lettori è che la revoca della concessione è inattuabile (fa eccezione l’articolo di Roberto Cuda del 18 agosto, intitolato ‘Atlantia, nessuno scenario apocalittico sulla via della nazionalizzazione’). A quella ‘sinistra’ che si definisce pomposamente ‘società civile’ evidentemente non bastano neanche 40 morti per rompere il proprio cordone ombelicale col ‘partito delle privatizzazioni’. 


Una strage di lavoratori

Il lutto ha colpito ancora una volta dei lavoratori, dei luoghi di lavoro e un quartiere operaio in una città già martoriata da crisi, disastri e incidenti più o meno direttamente riconducibili a una politica economica criminale. Forse non è un caso che proprio da qui negli anni passati siano partiti alcuni segnali di reazione sociale. E questa potrebbe essere un’indicazione per il futuro.

Due operai dell’AMIU, l’azienda di igiene urbana del Comune di Genova, trimestrali, di quelli assunti ogni anno d’estate per consentire ai colleghi di andare in ferie e che quest’anno si erano ritrovati nel contratto una clausola per cui dopo un certo numero di giorni di malattia non sarebbero più stati richiamati. Stavano sul piazzale, insieme a un dipendente di As.Ter, altra partecipata del Comune di Genova, che si occupa di manutenzioni stradali, verdi, impianti, segnaletica e pronto intervento stradale: lavorava nel ‘verde’ e in quegli istanti maledetti era all’isola ecologica per scaricare dello sfalcio caricato poco prima. E ancora: un camallo, uno scaricatore del porto, che andava a lavorare al VTE, il Voltri Terminal Europe, estremo ponente genovese. Era socio della CULMV, la storica Compagnia Unica Lavoratori Merci Varie, le cui origini risalgono addirittura al 1340, oggi intitolata a Paride Batini, console dei camalli dal 1984 alla sua morte nel 2009 e protagonista di dure lotte per difendere il ruolo della Compagnia Unica in porto: impedire che le operazioni di carico e scarico siano effettuate da una manodopera spezzettata al servizio dei diversi terminalisti e con meno potere contrattuale. E poi ci sono almeno 4 camionisti, colti al volante dal crollo della campata del ponte, ma anche impiegai, operai, dipendenti pubblici in viaggio per andare in vacanza, al lavoro oppure per sbrigare qualche commissione. La tragedia di Genova è stata anche, forse soprattutto, ancora una volta, una grande tragedia del lavoro. E avrebbe potuto andare peggio se il crollo avesse travolto in pieno e non soltanto lambito Ansaldo Energia, 2400 dipendenti, ex gioiello dell’industria pubblica, venduto a Shangai Electric nel 2014. E ancor più se si fosse abbattuto sulle case sotto il viadotto, una zona proletaria che il torrente Polcevera divide dall’area di Campi, un tempo uno dei cuori industriali della città, oggi con l’Ansaldo affiancata da Ikea, Leroy Merlin e altri giganti della grande distribuzione.

Ma il bilancio avrebbe potuto essere molto peggiore – ci racconta un lavoratore del Gruppo AMIU del Rialzo, il deposito dove si trovano l’isola ecologica travolta dal cemento e gli uffici di AMIU Bonifiche, una controllata di AMIU che si occupa di diserbo e amianto. Un filmato agghiacciante pubblicato da Repubblica ieri mostra le immagini delle telecamere aziendali puntate sulla zona antistante l’entrata dell’isola ecologica sotto il ponte. Pochi secondi prima del crollo si vede passare una spazzatrice con un’operatrice a bordo e un paio di lavoratrici rientrare di corsa riparandosi il capo dalla pioggia. ‘Se ci fosse stato il sole probabilmente ci sarebbero stati alcuni colleghi in pausa a fumare una sigaretta’ – ci racconta il lavoratore – ‘e se il pilone non fosse crollato in verticale avrebbe potuto travolgere decine di colleghi che si stavano facendo la doccia negli spogliatoi e gli uffici con gli impiegati delle bonifiche’. Un gruppo di delegati dell’Unione Sindacale di Base (USB) il giorno dopo il crollo aveva denunciato una situazione pesante: dal 2015 calcinacci e pezzi di ferro cadevano giù dal viadotto mettendo a rischio i lavoratori del Rialzo e del deposito di Campi, tanto che alcune aree erano state chiuse ed erano state messe delle reti di protezione per evitare che i lavoratori venissero colpiti. ‘In effetti i tecnici di Autostrade sono venuti più volte a effettuare rilievi dopo le segnalazioni’ – ci conferma il lavoratore – ‘una situazione che spesso ci portava a interrogarci sul rischio di lavorare lì sotto, così come qualche domanda ce la facevano quando passavano sopra il ponte, perché a Genova è tanto che se ne parla, ma d’altra parte io sono lì da quasi 15 anni e non mi è mai passato seriamente per la testa che il ponte potesse caderci addosso. Come puoi pensare che uno degli snodi più importanti del traffico stradale di tutto il paese faccia questa fine?’.

Quel che è certo è che i vertici di AMIU si sono limitati a girare le segnalazioni dei lavoratori ad Autostrade e a cercare di limitare i danni, ma che non sembrano essersi spesi con particolare ardore per denunciare ed eliminare il problema alla radice. Tanto che dopo la denuncia dei rappresentanti di USB l’Azienda e le altre organizzazioni sindacali hanno manifestato il proprio fastidio. Pesa anche il fatto che quei lavoratori sono gli stessi che l’anno scorso erano in prima linea negli scioperi e nelle manifestazioni che hanno fatto saltare la fusione di AMIU con IREN, multiutility quotata in Borsa, progetto fortemente auspicato sia dal gruppo dirigente aziendale sia inizialmente da CGIL CISL UIL (poi dalla sola CGIL arroccata a difendere la giunta di centrosinistra dell’ex sindaco Marco Doria). ‘Anche il trattamento riservatoci dopo il crollo ci colpisce. AMIU ha fatto un richiamo al nostro senso di responsabilità. Al deposito di Campi, che è inagibile perché sta anch’esso sotto il ponte, in questo momento i colleghi si cambiano in un container col tetto sfondato che usavamo per i rifiuti ingombranti. E’ in strada. Ci hanno messo un tavolo e due sedie dentro e abbiamo dovuto insistere perché ci mettessero accanto due bagni chimici’, ci racconta un altro lavoratore. ‘Noi senso di responsabilità lo abbiamo sempre avuto, lo abbiamo dimostrato nelle tre alluvioni e tutte le volte che ce n’è stato bisogno. Non abbiamo mai guardato l’orologio né ci siamo mai tirati indietro quando c’era da soccorrere i cittadini e sgomberare le strade dl fango e dalle macerie. Ma non si può chiedere a gente che per lavoro maneggia rifiuti di andare a farsi la doccia a casa e di cambiarsi in un cassone di metallo dove ti piove sulla testa’.  Viene da pensare che se l’Azienda si fosse preoccupata di più per le condizioni di lavoro dei propri dipendenti, la settimana scorsa forse l’isola ecologica sotto quel ponte non ci sarebbe stata, se non altro per evitare che qualcuno, lavoratore ma anche utente, rischiasse di prendersi un tubo di ferro in testa.

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