SIRIA L’autogoverno popolare ucciso da USA e Assad

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L’articolo di Leila al Shami, L’eredità di Omar Aziz: costruire comunità autonome basate sull’autogoverno in Siria, è stato scritto alla fine del 2016. L’Autrice, che ringraziamo per averci autorizzato a tradurre e pubblicare il testo, vi ricorda il ruolo svolto dall’anarchico siriano dedicatosi alla lotta contro il regime fino alla sua uccisione per mano del mukhabarat, la polizia politica, ma sopratutto racconta un aspetto poco noto della guerra civile siriana. E’ la storia delle esperienze di autogoverno popolare nate in oltre 300 città, villaggi e quartieri siriani dopo la cacciata delle forze di Assad e distrutte in seguito con la complicità delle potenze straniere, formalmente nemiche dello stesso Assad, presenti nel paese. La collaborazione tra il regime siriano e i suoi nemici nello schiacciare quelle esperienze rappresenta uno schiaffo a chi a sinistra predica la necessità di sostenere Assad per arginare l’ingerenza degli USA e dei loro alleati nella regione. Una tesi che l’Autrice ha vivacemente confutato anche nell’articolo ‘La Siria e l’antimperialismo degli idioti’ (qui la traduzione italiana pubblicata da Vice).

Leila al Shami è un’attivista di ispirazione libertaria, che si occupa di diritti civili e giustizia sociale in Siria e altrove dal 2000. E’ fondatrice del sito antiautoritario Tahrir-ICN, ha pubblicato con Robin Yassin-Kassab, Burning Country: Syrians in Revolution and War, di cui a febbraio è uscita una nuova edizione e tradotto anche in spagnolo e un saggio nel volume collettivo Daesh, the Left and the Unmaking of the Syrian Revolution (2015). L’articolo è tratto dal blog di Leila.


L’eredità di Omar Aziz: costruire comunità autonome basate sull’autogoverno in Siria

Leila Al Shami, leilashami.wordpress.com, 7 novembre 2016,

‘Una rivoluzione è un fatto eccezionale che cambierà la storia delle società e allo stesso tempo l’umanità stessa. è una rottura nel tempo e nello spazio, dove gli esseri umani vivono sospesi tra due periodi: quello del potere e quello della rivoluzione. la vittoria di una  rivoluzione è, in fin dei conti, Ottenere l’indipendenza dal proprio tempo per muovere verso una nuova era’ (Omar Aziz).

Omar Aziz aveva compiuto i suoi 60 anni nel 2011, quando tornò in Siria. Aveva lavorato per un’azienda informatica in Arabia Saudita, ma ora voleva partecipare alla sollevazione  che infuriava contro la dittatura quarantennale della famiglia Assad. Insieme ad altri attivisti Aziz cominciò a fornire assistenza umanitaria alle famiglie sfollate dalle periferie di Damasco dopo gli attacchi del Regime. Trovava ispirazione nelle proteste che andavano avanti sfidando i carri armati e i proiettili del Regime, ma credeva allo stesso tempo che  le manifestazioni da sole non fossero sufficienti a spezzare il dominio del Regime e che l’attività rivoluzionaria dovesse permeare di sè tutti gli aspetti della vita delle persone.

Prima del suo arresto, il 20 novembre 2012, e della sua morte in prigione, nel febbraio 2013, Aziz promosse forme di autogoverno locale, di organizzazione orizzontale, di cooperazione, solidarietà e mutuo soccorso, intesi come strumenti grazie ai quali le persone possono liberarsi dalla tirannia dello Stato.

In uno scritto che risale all’ottavo mese della rivoluzione, quando le manifestazioni erano ancora largamente pacifiche e le comunità ancora vivevano sotto l’autorità dello Stato, spiegava che ‘il  movimento rivoluzionario resta separato dall’attività quotidiana delle persone’. E aggiungeva: ‘nel lavoro di tutti i giorni c’è una separazione tra attività ordinaria e attività rivoluzionaria’. Il rischio sta – scriveva ancora – ‘nell’assenza di relazione tra la sfera della vita quotidiana e la rivoluzione’.

Aziz perciò fece appello alla creazione di consigli locali proprio per ridurre questa distanza. A suo avviso questi organismi, formati da volontari con esperienza in vari campi, avrebbero dovuto esercitare una serie di responsabilità, tra cui reperire abitazioni sicure per gli sfollati, organizzare la difesa dei detenuti nelle carceri del Regime e fornire assistenza alle loro famiglie. Aziz credeva che fosse loro compito anche promuovere solidarietà e cooperazione, organizzando momenti di dibattito in cui le persone potessero trovare soluzioni collettive ai problemi che stavano affrontando e stabilendo legami orizzontali tra i consigli presenti nelle diverse regioni.

Spiegava inoltre che i consigli avrebbero dovuto anche coordinare la resistenza all’occupazione del territorio nelle città e nelle periferie da parte dello Stato, che cacciava la popolazione per creare zone residenziali sicure per i funzionari del Governo e dell’esercito, aree commerciali e altri progetti economici a esclusivo beneficio dei ricchi.

Qualche mese più tardi Aziz scrisse un secondo articolo. La situazione in Siria stava cambiando rapidamente. La brutale risposta dello Stato aveva portato alla militarizzazione della rivoluzione, con la gente costretta a prendere le armi per difendersi. Molti territori  nel frattempo avevano cominciato a essere liberati. Le comunità che avevano organizzato la sollevazione e che ora mettevano a disposizione di chi ne aveva bisogno cestini di generi alimentari e trasformavano le case in ospedali da campo per lui costituivano una fonte di ispirazione. Quelle azioni, pensava, mostravano ‘lo spirito della Resistenza Popolare siriana alla brutalità del regime, alla sistematica distruzione della comunità e all’uccisione dei suoi membri’. Aziz descrisse come gli attivisti all’inizio della rivoluzione avessero formato dei comitati di coordinamento per comunicare coi media, documentare le attività svolte e  registrare i crimini del Regime e come quelle attività si fossero estese fino a includere il pronto soccorso e altri servizi medici. Credeva che stessero emergendo nuove relazioni sociali che permettevano alla gente di spezzare il dominio dello Stato e vide in ciò la prova di  una trasformazione in corso nelle relazioni sociali e nei valori. Per Aziz questa indipendenza rappresentava la strada verso la liberazione.

Secondo Muhammed Sami Al Kayyal, uno dei compagni di Aziz, ‘Omar Aziz si è battuto per la completa rottura dello Stato allo scopo di ottenere un’emancipazione collettiva, senza aspettare un cambio di regime o la sostituzione di un potere con un altro potere. Egli credeva che le comunità fossero capaci di guadagnarsi la libertà al di fuori delle dinamiche politiche tradizionali’. Aziz  si rese conto che lo scoppio di una rivoluzione è il momento in cui la gente deve rivendicare la propria autonomia e realizzare il più possibile un programma alternativo. Perciò lanciò di nuovo un appello alla formazione di consigli locali, questa volta attribuendo loro un maggior numero di funzioni , come coordinare le azioni di soccorso, istituire commissioni mediche e organizzare iniziative di formazione. Insomma costruire in Siria comunità autonome basate sull’autogoverno, legate tra loro attraverso una rete di Cooperazione e Mutuo Soccorso, organizzate in modo autonomo dallo Stato: Pensava che potesse essere l’inizio di una rivoluzione sociale.

Aziz in persona contribuì, prima di essere arrestato , a fondare quattro di questi consigli nei quartieri operai della periferia di Damasco. Uno si trovava nella città di Daraya, la cui economia era fondata prevalentemente sull’agricoltura. Daraya aveva una storia di resistenza- civile non violenta  già prima della rivoluzione e con radici non laiche ma religiose. I suoi attivisti seguivano infatti la tradizione dello studioso islamista liberale Jawdat Said (1931),  che sosteneva la disobbedienza civile non violenta, la democrazia e i diritti delle donne e delle minoranze.

A Daraya giovani uomini e donne avevano organizzato campagne contro la corruzione così come manifestazioni contro l’invasione israeliana  del campo profughi di Jenin nel 2002 e l’invasione americana dell’Iraq nel 2003. Queste proteste, organizzate coraggiosamente in uno Stato di polizia senza il permesso del regime, condussero all’arresto di numerosi attivisti.

Quando nel 2011 scoppiò la rivoluzione, la gioventù di Daraya, indifferentemente dalla provenienza musulmana o cristiana, scese in piazza chiedendo la caduta del Regime e la democrazia. Agitavano fiori in faccia ai soldati, inviati per sparare contro di loro, come simbolo di pace. Molti vennero circondati, incarcerati e torturati. Nell’agosto 2012 la città fu vittima di un terribile massacro: centinaia di uomini, donne e bambini vennero assassinati dalle truppe di Assad, ma questa brutalità aumentò la determinazione della Resistenza. Tre mesi più tardi il Regime fu estromesso dalla città dalla popolazione locale, che aveva impugnato le armi per difendersi. La città ora era sotto il pieno controllo di chi ci viveva e la comune di Daraya era nata.

Il 17 ottobre 2012 venne creato un consiglio locale che doveva occuparsi degli affari della città e aiutare gli sfollati e i feriti. I suoi 120 membri eleggevano un esecutivo ogni sei mesi, mentre il capo del consiglio e il suo vice venivano eletti dalla popolazione  in quelle che furono tra le prime libere elezioni svoltesi negli ultimi 40 anni. Il Consiglio garantiva che venissero forniti tutti i servizi essenziali, come  la fornitura di acqua ed elettricità, ai circa 8mila residenti rimasti, su una popolazione che prima della sollevazione ne contava 80mila. Aprì un ufficio di assistenza che organizzava la distribuzione di zuppa e provò a promuovere l’autosufficienza alimentare coltivando cereali che poi distribuiva alla popolazione. Inoltre gestiva tre scuole elementari (tutti gli altri edifici scolastici erano fuori servizio a causa dei ripetuti bombardamenti), un ufficio medico e amministrava l’unico ospedale da campo rimasto, che assisteva malati e feriti. Infine l’autonomia di Daraya era difesa da una Brigata locale dell’Esercito Libero soggetta al controllo dell’autorità civile del Consiglio.

Daraya dunque era l’antitesi dello Stato di Assad. Il popolo aveva costruito con le proprie mani una società libera e democratica. A latere delle attività del Consiglio alcune donne avevano fondato il gruppo delle Donne Libere di Daraya, che organizzava manifestazioni e prestava assistenza umanitaria. Quelle donne cominciarono a produrre e a diffondere una rivista indipendente intitolata Enab Baladi (Uva del mio paese) sfidando il monopolio del Regime sui media e a promuovere una pacifica resistenza alla violenza e all’oppressione confessionale dello Stato. Gli attivisti aprirono una biblioteca alternativa, un tranquillo paradiso dove la gente poteva andare a leggere, studiare e scambiare idee. L’autore di graffiti Abu Malik Al-Shami dipinse la speranza sui muri della città distrutti dai bombardamenti.

Ma nel novembre del 2012 il regime intrappolò la popolazione assediandola e bloccando  i rifornimenti di viveri e medicinali. Chi cercava di fuggire o andava in cerca di provviste nei dintorni veniva abbattuto dai cecchini. Su Daraya vennero lanciati gas, napalm e oltre 9000 ‘bombe-barile’. Il Consiglio fece ripetutamente appello alle associazioni umanitarie, affinché mantenessero l’impegno a cercare di rompere l’assedio: ‘Ci stanno punendo per aver osato sollevarci pacificamente per la nostra libertà è la nostra dignità’,  recitava un comunicato. ‘Qui non ci sono estremisti come quelli dell’ISIS o di al Nusra. Chi difende i nostri quartieri sono persone di qui, che proteggono le strade da un governo che ha torturato, gassato è bombardato noi e le nostre famiglie’. Anche donne e bambini parteciparono alle manifestazioni, registrando dei video , caricandoli sul web e chiedendo a un mondo circostante rivelatosi sordo di rompere l’assedio e porre fine alla violenza del regime. A partire dall’estate del 2016 la situazione si deteriorò. Un embargo lanciato da Giordania e America contro la vendita di armi al Fronte Meridionale, un raggruppamento di forze laiche e democratiche dell’Esercito Libero schierate a sud, aveva permesso al regime di dirottare una parte delle forze a Daraya per intensificare l’offensiva sulla città. Gli americani stavano cercando di esercitare una pressione sul Fronte Meridinale affinché esso concentrasse i suoi sforzi contro i gruppi estremisti islamici (che a sud avevano una presenza limitata) piuttosto che contro il Regime. L’ultimo ospedale rimasto a Daraya venne distrutto, la terra coltivata, unica fonte di cibo, venne occupata e i cereali bruciati.

Con un arsenale a disposizione limitato, nessuna assistenza dall’esterno, dovendo fronteggiare la fame, a Daraya la resistenza  contro lo Stato e i suoi alleati imperialisti andò avanti per quattro anni. Ma il 25 agosto 2016 la città cadde nelle mani del Regime. Tutti gli abitanti, sia i civili sia i combattenti, vennero evacuati, forse per sempre. Alcuni civili deportati nella città di Harjalleh, sotto il controllo del Governo, vennero arrestati e ora si trovano nelle segrete  del Regime.  Le truppe di Assad celebrarono la loro ’vittoria’  in un apocalittico deserto di macerie, in una città svuotata ormai della sua popolazione.

Omar Aziz non visse abbastanza per vedere i considerevoli risultati della rivoluzione a Daraya. Né potè essere testimone degli altri esperimenti di autogoverno, sviluppatisi nel paese con diversi gradi di successo.

I consigli locali non sono un’istanza ideologica ma uno strumento pratico. Il loro primo interesse è far funzionare le comunità nelle regioni dove lo Stato è al collasso. Mantengono la loro indipendenza da direttive di carattere politico o religioso, concentrandosi invece su temi di immediata rilevanza per la popolazione, come la fornitura di servizi e l’assistenza alimentare. Lavorano filtrando la propria attività attraverso il prisma della propria cultura e della propria esperienza. Le loro tendenze libertarie, alternative all’autoritarismo dello Stato, sono innegabili.

Dal marzo del 2016 si stima che abbiano operato 395 consigli locali in città grandi e piccole e quartieri, metà ad Aleppo e nelle province di Idlib. Questa stima è stata formulata pochi mesi dopo l’intervento militare russo, attuato per puntellare il barcollante regime di Assad, e che ha visto vaste aree di territorio liberato tornare sotto il suo controllo, esponendo a una grave minaccia queste comunità autonome. Nel momento in cui scrivo altre periferie della Capitale che avevano partecipato alla rivoluzione rischiano di cadere nelle mani del Regime. E’ il risultato della politica ricattatoria di Assad, riassumibile nello slogan ‘o vi sottomettete o morirete di fame’. E’ quanto sta succedendo ad Al-Waer, l’ultima roccaforte rivoluzionaria a Homs. mentre i 300mila sirianiliberati nella zona orientale di Aleppo sono ancora una volta sotto assedio.

Gli esperimenti di democrazia comunitaria citati rappresentano la più grande minaccia per tutti gli Stati attualmente impegnati in Siria, siano essi pro o contro Assad, così come per i gruppi estremisti e autoritari che si battono per il potere a proprio uso e consumo. Ed è per questo che sono violentemente sotto attacco.

Bibliografia
Omar Aziz, A Discussion Paper on Local Councils (2011) https://muqawameh.wordpress.com/2013/09/14/translated-quota-discussion-paper-on-local-councils-in-syriaquot-by-the-martyr-and-comrade-omar-aziz/

Omar Aziz, The formation of local councils in Syria, 2011 (in Arabic) https://www.facebook.com/note.php?note_id=143690742461532
Budour Hassan, “Radical Lives: Omar Aziz” (2015) http://wire.novaramedia.com/2015/02/radical-lives-omar-aziz/
Mohja Kahf, “Water bottles & roses: Choosing non-violence in Daraya” (2011) http://www.mashallahnews.com/water-bottles-roses/
Letter written by a member of Daraya’s Local Council. Cited at “The Syria Campaign” https://act.thesyriacampaign.org/sign/save-daraya?source=tw&referring_akid=.166567.9L5obO
Agnes Favier, “Local Governance Dynamics in Opposition-Controlled Areas in Syria” (2016) https://isqatannizam.wordpress.com/2016/07/09/local-governance-dynamics-in-opposition-controlled-areas-in-syria/ 

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