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POLITICA Mark Zuckerberg, 33enne miliardario fondatore di Facebook, lancia un appello dal suo profilo contro la politica migratoria di Trump. Più che una battaglia di idee tra un giovane esponente della giovane imprenditoria liberal della Silicon Valley e un vecchio tycoon populista e antiquato, lo scontro riflette il peso crescente del microchip rispetto al carbone nell’economia americana. E il peso che a loro volta la manodopera straniera ha nel settore più avanzato e dinamico dell’industria a stelle e strisce. ECONOMIA Davos è il palcoscenico per lo scontro tra Trump e il resto del mondo sul tema dei dazi, ma la discussione assume contorni surreali se consideriamo che a premere sulla Casa Bianca per limitare l’importazione di celle fotovoltaiche dall’Asia sono stati un gruppo tedesco e uno cinese. TRASPORTI Dopo l’incidente di ieri vicino a Milano un macchinista ci spiega perché deraglia un treno e quali sono i problemi a monte che mettono a rischio la sicurezza di passeggeri e lavoratori delle ferrovie. 


 

USA Il partito della Silicon Valley contro Trump?

IL FATTO

Il 17 gennaio Mark Zuckerberg, il 33enne fondatore di Facebook, ha pubblicato un post sul suo profilo in cui esorta i suoi sostenitori a tenere sotto pressione il Congresso americano, affinché trovi una soluzione legislativa al problema degli  800mila dreamers, gli immigrati irregolari arrivati negli USA da piccoli coi loro genitori, a rischio di espulsione dopo che l’Amministrazione Trump ha decretato la fine dei DACA, Deferred Acrion for Childhood Arrivals. Si tratta di un provvedimento approvato da Obama che consente di rinviare l’espulsione di 2 anni maturando nel frattempo il diritto a un permesso di lavoro. Nel post Zuckerberg rivela di aver parlato coi leader del Congresso e di essere ottimista rispetto alla possibilità di una soluzione bipartisan al problema. Il magnate di FB invita ad aderire alla campagna di Fwd.us che chiede a ogni elettore di telefonare al proprio rappresentante al Congresso facendogli presente la necessità di approvare urgentemente una legge per risolvere il problema.

IL CONTESTO

Forward US (avanti Stati Uniti!) è un’organizzazione nata nel 2013, dopo la pubblicazione di un articolo dello stesso Zuckerberg sul Washington Post (che segue in traduzione), per iniziativa di alcuni dei maggiori esponenti delle corporation del mondo virtuale: oltre a Zuckerberg ci sono il fondatore di Microsoft Bill Gates, quello di Dropbox Drew Houston e molti altri. Gli obiettivi dichiarati da Fwd.us sul suo sito sono:

– riforma dell’immigrazione (protezione dei confini, ma corsie preferenziali per stranieri ‘dotati e pronti a lavorare duro’, percorsi di regolarizzazione per gli immigrati, inclusi quelli illegali, un migliore sistema di controllo preassunzione (al momento le imprese devono verificare sul sito E-verify se una persona ha i requisiti legali per essere assunta).

– interventi per migliorare la formazione scolastica nel settore scientifico e tecnologico

– più investimenti sulle grandi innovazioni scientifiche

Dovendo dare una definizione più generale, secondo gli stessi fondatori ‘Fwd.us è un’organizzazione lanciata da figure chiave della comunità hi-tech per promuovere politiche che mantengano gli USA e i suoi cittadini competitivi nell’economia globale, a partire da riforme dell’immigrazione e della giustizia improntate al buon senso’.

L’appello lanciato da Zuckerberg riecheggia la lettera contro il muslim ban di Trump sottoscritta circa un anno fa da 127 aziende tra cui Airbnb, Apple, Ebay, Facebook, Intel, Linkedin, Micrsoft, Mozilla, Netflix, Spotify, Twitter, Uber – insomma il gotha dell’economia virtuale – mentre altre corporations del settore, come Amazon, avevano già fornito il loro sostegno alle iniziative legali contro ili provvedimento. Nella lettera le aziende scrivevano tra l’altro che il bando avrebbe reso  ‘più difficile e costoso per le compagnie americane il reclutamento, l’assunzione e il trattenere i migliori talenti mondiali’. CorriereTecnologia290117 pubblicava una rassegna delle dichiarazioni dei sottoscrittori (Tim Cook: ‘Apple non esisterebbe senza immigrazione’;  Travis Kalanick: ‘Questo ordine ha implicazioni molto più ampie e coinvolge migliaia di autisti di Uber’).

Formiche.net100917, uno dei rari siti di analisi politica italiani che valga la pena di leggere, qualche mese fa evocava il ‘partito della Silicon valley’ quale protagonista della futura opposizione  a Trump e, citando uno studio condotto da tre ricercatori di Stanford, David BroockmanGreg F. Ferenstein e Neil Malhotra e intitolato Il comportamento politico degli americani ricchi: gli imprenditori dell’alta tecnologia, ne tracciava un ritratto ideologico sintetizzandolo nell’occhiello  in ‘su valori e tasse sono (molto) a sinistra, ma su sindacati e imprese sono (decisamente) a destra’.

Anche negli Stati Uniti qualcuno un anno fa profetizzava la discesa in campo di Zuckerberg, leggendone le avvisaglie nel tour in tutti gli Stati dell’Unione annunciato all’epoca, poi nell’assunzione come collaboratori di ex strateghi e campaign manager di Obama, Clinton e Bush. Ma la discesa in campo veniva più volte smentita senza che ciò impedisse all’inventore di Facebook di posizionarsi più volte pubblicamente come l’antiTrump e il sostenitore di ‘una globalizzazione dal volto umano in grado di far funzionare un sistema di libero scambio e libera immigrazione a beneficio degli ultimi’ (Buzzfeed260517). Se ciò effettivamente non costituisce un vero e proprio ingresso nell’arena della politica c’è comunque un elemento di protagonismo politico di un settore di borghesia americana abbastanza inedito. Nella crisi del sistema di rappresentanza americano, manifestatasi a tutto tondo con le lacerazioni intestine di Democratici e Repubblicani e con la sconfitta inflitta da Trump ai vertici di entrambe i partiti alle scorse elezioni, e nel vuoto aperto da quella crisi l’iniziativa del settore più avanzato del capitalismo a stelle e strisce appare il tentativo di rimediare all’incapacità della politica esercitando un condizionamento diretto e bipartisan sul Congresso per imporre il proprio orientamento in materia di politica economica: microchip  di ultima generazione contro carbone e acciaio. Un orientamento che al tempo stesso viene proposto al pubblico come filosofia e visione del mondo liberal da un pugno di miliardari con piglio militante. Stavolta insomma le grandi corporation non ricorrono a una lobby, che per sua natura agirebbe nelle segrete stanze, ma decidono di agire pubblicamente, rivolgendosi direttamente agli elettori. Una sorta di populismo digitale all’insegna del sogno americano, non privo di sfumature giovanilistiche che ci ricordano qualcosa…

Il paradosso è che dietro la retorica della difesa degli ultimi, della solidarietà e, appunto, dell’american dream per tutti, ci sono le contraddizioni di una new economy che dalla fine degli anni ’90 ha creato ricchezze straordinarie (nel 2016 il PIL della Silicon Valley ammontava a 235 miliardi di dollari, tanto quanto il PIL irlandese e più del PIL della Grecia o del Portogallo), ma anche sacche di sfruttamento e di impoverimento sui cui si sono costruite le fortune di imprenditori come Steve Jobs, Bill Gates e lo stesso Zuckerberg e che alo stesso tempo hanno contribuito proprio a creare le condizioni per l’ascesa di Donald Trump, come spiega il secondo articolo che abbiamo tradotto. Già in una vecchia inchiesta di Report del 2000, E-conomy, si parlava ad esempio del permatemping: ‘Si tratta di un escamotage delle aziende della New Economy che mira a negare ai loro dipendenti il diritto ai contributi, che qui vanno versati alle assicurazioni private. Il trucco funziona così: i lavoratori vengono affittati permanentemente alle aziende da questa agenzie di lavoro interinale . Ciò significa che sulla carta risultano in affitto per periodi limitati, ma nella realtà lavoreranno a tempo pieno per anni nello stesso posto. Per il fisco essi figurano come dipendenti delle agenzie e non delle ditte per cui effettivamente lavorano e le agenzie qui in America non sono tenute a versare loro un solo dollaro di contributi. La Microsoft ancora oggi impiega così il 35% dei suoi lavoratori a tempo pieno risparmiando miliardi sulle loro spalle’. Un fenomeno ‘doppiamente pericoloso, perché negli USA chi non figura come dipendente non è coperto dalle leggi federali sul lavoro e non ha diritto a iscriversi a un sindacato’. E così centinaia di lavoratori dell’economia della conoscenza – come la definisce Zuckerberg – la notte si ritrovano su autobus di linea che corrono lungo la Silicon Valley, perché non possono permettersi di pagare affitti gonfiati alle stelle proprio dalla bolla di internet.

Per spiegare l’approccio del capitalismo digitale americano nei confronti dell’immigrazione si cita spesso il fatto che Jobs fosse di origine siriana; lo stesso Zuckerberg ricorda come i suoi bisnonni siano transitati da Ellis Island, tradizionale punto di arrivo degli immigrati in America, così come l’AD di Google è nato e cresciuto in India e così via. Ma non c’è solo questo. I lavoratori immigrati costituiscono una fetta importante della forza-lavoro dell’economia digitale USA. Quanto pesano? SeattleTimes180118 (inglese) risponde alla domanda elaborando i risultati di un’indagine condotta sulla base del censimento del 2016, in un articolo da da cui abbiamo tratto le tabelle riprodotte qui sotto.

Tabella 1:  percentuale di lavoratori IT stranieri

Come si può vedere nella SiliconValley (1) e a Seattle (3), capitali americane della nuova economia digitale, la quota di impiegati tecnici nati all’estero è rispettivamente il 71% e il 39%.

Tabella 2: provenienza dei lavoratori stranieri IT a Seattle

A Seattle lavoratori indiani e cinesi insieme rappresentano oltre la metà degli impiegati nel settore dell’Information Technology. (Number employed= numero di dipendenti; Percent foreign born=percentuale di stranieri).

Tabella 3: crescita dei lavoratori IT stranieri dal 1990 a Seattle

Il dato sulla crescita è ancor più impressionante: dal 1990 al 2016 la quota di immigrati è passata da poco più del 10% al 40%. Più della metà degli sviluppatori di software sono nati fuori dagli USA.

Tabella 4: percentuali lavoratori STEM stranieri per categoria

Infine è interessante un dato ricavabile da un rapporto dell’American Immigration Council del luglio 2017 sui cosiddetti STEM workers (lavoratori nel campo della scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). Se dal 1990 a oggi i lavoratori STEM nella società americana sono raddoppiati e i lavoratori STEM stranieri anche, la tabella qui sopra, tratta dallo stesso rapporto, mostra come l’unico settore in cui la quota di stranieri sia diminuita, sia pur leggermente, è quello dei manager. Quindi malgrado i lavoratori dipendenti stranieri nell’IT raddoppino, il numero di stranieri in posizioni dirigenti diminuisce. Altro che American Dream.

Sui numeri della gig economy nel mondo vedi PuntoCritico011217.


Mark Zuckerberg: gli immigrati sono la chiave per un’economia della conoscenza

Mark Zuckerberg, Washington Post, 10 aprile 2013

All’inizio dell’anno ho iniziato a tenere un corso extrascolastico di imprenditoria  nel mio quartiere. Gli alunni delle scuole medie ideavano business plan, realizzavano i loro prodotti e avevano perfino la possibilità di venderli. Un giorno ho chiesto ai miei studenti cosa pensavano di iscriversi al college. Uno dei miei migliori aspiranti imprenditori mi ha risposto che non era sicuro di poter frequentare il college, perché non aveva i documenti. La sua famiglia proviene dal Messico ed è venuta qui quando lui era ancora piccolo. Molti alunni della mia comunità sono nelle stesse condizioni. Sono arrivati negli Stati Uniti così piccoli che non hanno alcun ricordo di una vita condotta altrove. Sono studenti intelligenti, lavorano duro e dovrebbero poter essere parte del nostro futuro. Questa, dopo tutto, è la storia americana. I miei bisnonni sono transitati da Ellis Island (Isola davanti a New York, punto di ingresso per i migranti in arrivo negli USA N.d.T.). I miei nonni erano una postina e un poliziotto. I miei genitori sono medici. Io ho fondato un’azienda. Nulla di tutto ciò sarebbe accaduto senza una politica migratoria accogliente, un grande sistema educativo e la prima comunità scientifica nel mondo, quella che ha creato internet.  Gli studenti di oggi dovrebbero avere le stesse opportunità, ma il sistema attuale li blocca. Abbiamo una politica migratoria singolare per essere una nazione di immigrati. E soprattutto è una politica inadatta al mondo di oggi. L’economia del secolo scorso era basata in primo luogo sulle risorse naturali, i macchinari industriali e il lavoro manuale. Molte di queste risorse erano a somma zero e venivano controllate dalle imprese. Se qualcun altro possedeva un giacimento petrolifero, non potevi averlo tu. C’era un numero finito di giacimenti e la ricchezza che se ne poteva trarre era anch’essa finita. L’economia di oggi è molto differente. Si basa fondamentalmente sulla conoscenza e sulle idee – risorse rinnovabili e accessibili a chiunque. A differenza dei giacimenti petroliferi se qualcuno sa una cosa, questo non ti impedisce di saperla a tua volta. Anzi, quante più persone sanno qualcosa, quanto più siamo formati e addestrati, tanto più diventiamo produttivi e ognuno può vivere in modo agiato nella nostra nazione. Questo fa la differenza. In un’economia della conoscenza la risorsa più importante sono le persone di talento che siamo in grado di attrarre nel nostro paese e di educare. Un’economia della conoscenza  può crescere continuamente, creare posti di lavoro migliori e garantire una qualità della vita più elevata a ognuno nella nostra nazione. Per guidare il mondo in questa nuova economia abbiamo bisogno delle persone più dotate e più disponibili a lavorare duro. Dobbiamo attrarre e formare i migliori. Abbiamo bisogno che quegli studenti medi siano la classe dirigente di domani. Partendo da queste premesse, perché buttiamo fuori più del 40% di laureati in matematica e discipline scientifiche che non hanno la cittadinanza, dopo averli istruiti? Perché mettiamo disposizione così pochi permessi per specialisti di talento che, se ci fossero verrebbero assunti nel giro di pochi giorni, pur sapendo che per ognuna di queste assunzioni ci saranno 2-3 posti disponibili per lavoratori americani? Perché non lasciamo che gli imprenditori si trasferiscano qui se hanno ciò che serve per aprire attività che creeranno ancor più lavoro? Per questo abbiamo bisogno di un nuovo approccio, che includa:

– un’esaustiva politica migratoria, a partire da un’effettiva sicurezza dei confini, con percorsi per l’acquisizione della cittadinanza e che ci permetta di attrarre le persone più dotate e più disponibili a lavorare duro, dovunque siano nate.

– trasparenza e livelli di insegnamento più elevati nelle scuole, sostegno ai buoni insegnanti e molta più attenzione all’insegnamento di scienza, tecnologia, ingegneria e matematica.

– investimenti sulle grandi scoperte della ricerca scientifica e la garanzia che i benefici di tali invenzioni ricadano su tutti e non siano solo a beneficio di pochi.

Cambiamenti come questi non accadranno da soli. Per questo sono orgoglioso di annunciare FWD.us, una nuova organizzazione fondata dai leader della nostra comunità tecnologica nazionale per attirare l’attenzione su questi temi e fare appello a un programma politico bipartisan per promuovere l’economia della conoscenza di cui gli Stati Uniti hanno bisogno per garantire più lavoro, più innovazione, più investimenti. Tra questi leaders, che rispecchiano l’ampiezza e la profondità della cultura della Silicon Valley, ci sono Reid Hoffman, Eric Schmidt, Marissa Mayer, Drew Houston, Ron Conway, Chamath Palihapitiya, Joe Green, Jim Breyer, Matt Cohler, John Doerr, Paul Graham, Mary Meeker, Max Levchin, Aditya Agarwal and Ruchi Sanghvi. Come dirigenti di un’industria che ha beneficiato degli ultimi sviluppi dell’economia crediamo di avere il dovere di lavorare insieme per assicurare che tutti i membri della nostra società possano godere dei vantaggi dell’economia della conoscenza. Lavoreremo coi membri del Congresso di entrambe i partiti, l’Amministrazione, lo Stato e i funzionari locali. Useremo strumenti online e offline per promuovere nuove politiche e sosterremo con forza chi vorrà fare scelte chiare per promuovere tali politiche a Washington. In tutta l’America creativi, lavoratori infaticabili nei caffè, nei dormitori, nei garage stanno preparando la prossima fase di crescita economica. Abbracciamo il nostro futuro  dentro l’economia della conoscenza e aiutiamo loro – e tutti noi – a realizzare pienamente il nostro potenziale.


Come la Silicon Valley ha decimato la classe media e trainato l’ascesa di Trump

Paris Marx, TheBoldItalic.com, 7 marzo 2017

La Silicon Valley ama considerarsi come un bastione dei valori sociali del progressismo. E certo gli amministratori delegati dell’high tech parlano regolarmente in favore dei diritti degli LGBTQ e della riforma dell’immigrazione, al punto che quell’industria è diventata il contraltare del nazionalismo di Trump e dei gruppi di estrema destra che lo sostengono. Già dall’election day tuttavia i primi approcci di quel settore economico nei confronti della nuova amministrazione hanno acceso i riflettori su come gli interessi economici della Silicon Valley in realtà prevalgano su quella politica progressista che essa afferma di sostenere. Allo stesso tempo la Silicon Valley sta proiettando sul mondo una serie di innovazioni che, pur non essendo direttamente responsabili dei grandi problemi di disuguaglianza e polarizzazione sociale, ne costituiscono nondimeno un fattore decisivo. Le imprese dell’alta tecnologia infatti producono gli strumenti utilizzati per applicare l’automazione a milioni di posti di lavoro della classe media. E dove il lavoro non può essere assoggettato all’automazione l’innovazione contribuisce a renderlo più precario, trasformandolo in ‘lavoretto’. L’impatto conseguente è profondamente negativo e ha prodotto un risentimento che ha permesso a Trump di sconfiggere i suoi oppositori all’interno’establishment.

L’automazione crea disoccupazione

Uno dei messaggi su cui si è incentrata la campagna di Trump è stato riportare i posti di lavoro persi nel settore manifatturiero al di qua dell’oceano. Posti persi – affermava – perché gli  USA non sono più competitivi. In realtà l’occupazione perduta nel settore della manifattura ha poco a che fare con le delocalizzazioni e molto invece con gli strumenti di automazione messi a disposizione dalle nuove tecnologie della Silicon Valley. Dei circa 5,6 milioni di posti di lavoro cancellati tra il 2000 e il 2010 l’85% ha come causa l’automazione. Negli anni ’80 per un milione di dollari di prodotto nel settore manifatturiero erano impiegati 25 lavoratori. Oggi ne servono soltanto 5. Nonostante questo calo dell’occupazione la manifattura negli Stati Uniti non è in crisi. La produzione continua a crescere, semplicemente però l’industria ha bisogno di meno personale perché la tecnologia permette di produrre a costi inferiori. Ad esempio i robot per la saldatura a punti nel settore dell’auto costano solo 8 dollari l’ora, contro i 25 di un saldatore umano. Di conseguenza i lavoratori sono spesso spostati verso i servizi alla produzione, dove la paga oraria è meno della metà, ci sono meno prestazioni sociali e il lavoro è più instabile.

Queste ‘innovazioni’ stanno decimando la middle class. Nel 2015 la CNN riportava che meno del 50% degli americani veniva considerato classe media, rispetto al 61% del 1971. A San Francisco la classe media rappresenta solo il 48% della popolazione, mentre il 28% sta sulla soglia della fascia alta – oltre la media nazionale. Il valore mediano dei redditi (è il valore che sta a metà tra il reddito più alto e il più basso) a San Francisco – secondo Pew Research – dal 1999 è sceso del 10%.  In pratica i redditi alti hanno avuto incrementi significativi – metà dell’incremento complessivo  è andato all’1% – mentre quelli in basso non hanno avuto alcun beneficio.

L’automazione ha giocato un ruolo significativo anche nella trasformazione del commercio al dettaglio e dei servizi. Un numero crescente di fast food sta installando chioschi self service che consentono di fare a meno delle casse. Netflix ha messo Blockbuster fuori mercato.  La catena di librerie Barnes & Noble sta lottando per  reggere la concorrenza di Amazon, mentre quella di elettronica Best Buy ha dovuto cambiare il suo modello organizzativo. Ma questi esempi sono solo alcuni delle migliaia che potremmo citare. La stampa che si occupa di tecnologia va fibrillazione ogni volta che Amazon sperimenta un nuovo concetto di vendita – di recente si era detto che l’azienda avrebbe aperto 2mila punti vendita alimentari, costringendo  Amazon a smentire ufficialmente mediante un comunicato – ma è improbabile che l’azienda farà mai un investimento significativo aprendo veri e propri negozi e contribuendo in questo modo a recuperare i posti di lavoro che il suo modello di business ha contribuito a distruggere. Un tempo Wal-Mart veniva biasimato perché aveva messo fuori dal mercato i piccoli negozi a conduzione familiari, ma Amazon potrebbe avere lo stesso impatto sulle grandi catene commerciali.

Lavoro precario e Gig Economy

La gig economy è una disgrazia travestita da benedizione, nonché una realtà che molti lavoratori della classe media dovranno sperimentare proprio grazie all’industria dell’alta tecnologia. Oggi 6 milioni di lavoratori sono a tempo parziale perché non trovano un lavoro a tempo pieno. Anche se il dato è inferiore al picco raggiunto nel 2010, si tratta del livello più alto degli ultimi  30 anni. Questi lavoratori  tendenzialmente hanno un reddito basso, meno contributi e meno stabilità: un cattivo affare per i lavoratori, ma l’affare preferito dagli imprenditori. I nuovi software per la programmazione oraria, come quelli utilizzati da Starbuck, rendono più semplice prevedere  quando il negozio sarà più affollato e di conseguenza le imprese mettono in turno i lavoratori solo in quelle fasce, pagando loro solo le ore lavorate (invece della giornata piena).

Inoltre non è un segreto che i lavoratori dei servizi tendono cronicamente a essere sottopagati. I salari della classe media tra il 1979 e il 2013 sono aumentati solo del 6%, mentre quelli dei lavoratori ad alto reddito sono cresciuti del 41%. Al contrario i salari delle fasce inferiori sono scesi del 5% e quante più persone continueranno a essere precipitate dalla classe media verso lavori malpagati nei servizi, tanto più le disuguaglianze rimarranno intatte. La città di San Francisco ha cerato di affrontare questo tema approvando un aumento del salario minimo, ma la crescita della gig economy potrebbe azzerare anche questo risultato. Se le statistiche sulla polarizzazione, la disuguaglianza e la stagnazione dei salari indicano una crescita dei problemi, esse non bastano a descrivere la sofferenza che è stata inflitta a chi cerca di tirare avanti in quel muovo mondo del lavoro o ne viene espulso.

Contraccolpi negativi

Alcune ricerche hanno scoperto che disoccupati e sottoccupati hanno più probabilità di avere problemi di salute fisici e psichici, tassi di mortalità più alti, oltre che relazioni più complicate con le proprie famiglie. Inoltre, anche se i lavoratori a basso reddito hanno una probabilità doppia di finire disoccupati rispetto a un lavoratore ad alto reddito, hanno la metà delle possibilità di ricevere un sussidio di disoccupazione. In altre parole i disoccupati non ricevono neanche l’assistenza di cui hanno bisogno per sopravvivere mentre tentano di rientrare nel mondo del lavoro.

Nel 2015 più di 52mila persone sono morte per overdose di droghe, circa 150 al giorno, ma dov’erano i media e i leader politici? In un pezzo significativo scritto nel maggio 2016 Anne Amnesia mette in rapporto la crescita del consumo di oppioidi dagli anni ’90 e l’epidemia di AIDS, osservando che le morti per AIDS negli Stati Uniti toccarono il loro apice di 41699 decessi nel 1995, ma il tasso di morti per overdose ha già largamente superato quel numero e continua a crescere. Mentre allora la comunità gay era organizzata per lottare e ottenere un riconoscimento, oggi non c’è solidarietà tra coloro che lei definisce i ‘non necessari’, persone senza i mezzi per combattere per un’equa assistenza. A proposito dei ‘non necessari’ la Amnesia ammonisce che ‘il mondo delle automobili senza autista e dell’outsourcing globale non li vuole né ne ha bisogno. Ma un giorno non vorrà più neanche te’.

Secondo la teoria di Amnesia, anche se i vertici degli Stati costieri  sembrano aver ignorato le conseguenze della diffusione degli oppiacei, era prevedibile che le regioni degli USA dove il tasso di mortalità della popolazione bianca sono in crescita avrebbero con più probabilità votato Trump alle elezioni. Altri studi hanno scoperto che le contee con un più alto tasso di morti per overdose e suicidi erano più propense a votare Trump. Infine la storica Kathleen Frydl ha osservato che molte contee tradizionalmente democratiche colpite dalla diffusione degli oppiacei hanno visto aumentare la partecipazione al voto e un netto scivolamento verso Trump. E ha commentato osservando che ‘talvolta le persone rispondono alla porta solo a chi bussa’ e Trump, con tutte le sue colpe, è stato l’unico candidato che ha preso atto delle loro sofferenze.

La Silicon Valley deve fare qualcosa

Già il primo mese della presidenza Trump ha reso evidente che il Presidente non aveva intenzione di fare nulla per la gente disperata che lo aveva votato. Ma anche il Partito Democratico non sta fornendo soluzioni a questa crisi e la Silicon Valley non ne è uscita incolume. Gli elettori di Trump infatti sono in cerca di capri espiatori. Finora si sono concentrati sugli immigrati, ma quanto passerà prima che si convincano che la vera causa della loro condizione è la tecnologia? Se la Silicon valley vuole fermare il mondo prima che deragli deve cominciare a prestare attenzione all’impatto che le sue attività hanno sulle persone.

D’altra parte perché dovrebbe occuparsene? Uno studio del California Budget & Policy Center spiega che l’alto livello di disuguaglianza riduce la mobilità economica, che i vertici delle imprese high tech dovrebbero avere a cuore, vista la loro fede nella meritocrazia. Persino più persuasivo dovrebbe essere il fatto che i profitti delle famiglie ad alto reddito possano essere pagati da chi sta in fondo alla scala sociale. Mentre i ricchi si arricchiscono sempre di più, i poveri diventano sempre più poveri. Non è niente di nuovo né di rivoluzionario, ma è qualcosa di cui i dirigenti della Silicon Valley dovrebbero occuparsi per davvero. E’ ora che smettano di ignorare il tributo umano pagato alla loro ‘innovazione’ e che inizino a lavorare per trovare delle soluzioni. 


DAVOS I paradossi del dibattito sui dazi

Gennaio è il mese del World Economic Forum di Davos, la grande kermesse che dal 1971 riunisce capi di Stato, manager e star dello sport e dello spettacolo per discutere i grandi temi della politica e dell’economia globale. Alcune notizie storiche sul WEF e informazioni sull’edizione 2018 si trovano su AGI220118, ma per capire il clima che vi si respira forse vale più la pena di leggere un breve articolo pubblicato nel 2012 fa da un inviato del Corriere della Sera, dal titolo Vuoi sapere cos’è la società classista? Cerca di andare in bagno a Davos.

La stampa italiana e internazionale, nel fare la cronaca dell’edizione 2018 si è focalizzata sullo scontro sul protezionismo tra gli USA di Trump e il resto del mondo. Con perfetto tempismo infatti il presidente degli Stati Uniti ha annunciato, proprio in coincidenza con l’avvio del WEF, l’introduzione di barriere tariffarie all’importazione di cellule fotovoltaiche e lavatrici, in attesa di analoghi interventi su acciaio, alluminio e proprietà intellettuale. Come spiega LaStampa240118 il 95% delle celle per pannelli fotovoltaici installate negli USA proviene dall’estero e ha visto i costi diminuire del 70% dal 2000 a oggi, proprio grazie alla delocalizzazione produttiva in paesi con un basso costo del lavoro. Fino al 2011 il 59% delle celle infatti proveniva dalla Cina, una quota scesa all’11% perché la Cina ha deciso a sua volta di delocalizzare in Malesia proprio per sottrarsi a eventuali dazi. In questo scontro tuttavia c’è un aspetto paradossale: la Cina ‘comunista’ di Xi Jinping e la Germania di Angela Merkel guidano la rivolta contro i dazi introdotti da Trump su sollecitazione di due imprese leader nel mercato americano del solare, Suniva e Solar World, di proprietà rispettivamente cinese e tedesca. Mentre per quanto riguarda le lavatrici a sollecitare la Casa Bianca è stata la Whirpool, americana, pressata dalla concorrenza delle sudcoreane LG e Samsung. Dopo l’annuncio dei nuovi dazi Whirlpool ha annunciato nuovi investimenti e 200 assunzioni, mentre Cina e Corea del Sud hanno annunciato ricorsi al WTO. L’associazione di categoria delle imprese americane del fotovoltaico prevede aumenti dei prezzi e 23mila licenziamenti nel settore. Staremo a vedere.

Gli interventi di Merkel e Macron

Tuttavia a Davos non si parla solo di dazi. Nei due interventi principali di ieri, quelli di Merkel e Macron, in attesa che oggi parli Trump, sono emersi alcune indicazioni interessanti sulle intenzioni delle due maggiori potenze economiche europee. La cancelliera ha parlato di un’economia di mercato 4.0 come prospettiva del capitalismo europeo e mondiale. Ha definito i big data come la nuova materia prima per l’industria del XXI secolo e ha sottolineato che occorre scegliere un modello comune per la gestione di questa materia prima. Da una parte – ha detto – c’è il modello della privatizzazione dei dati, quello delle grandi corporations americane, dall’altra l’esempio cinese, fondato su una maggiore collaborazione tra imprese private e Stato. ‘La domanda “chi è proprietario dei dati?” – ha detto – sarà decisiva per decidere se democrazia, modello sociale partecipativo e prosperità economica possano coesistere’.  Il secondo asse del discorso è stato l’Europa: necessità di un mercato europeo dei capitali in grado di affrontare nuove crisi bancarie, di una politica estera e di una difesa comuni e mantenimento di una collaborazione con la Gran Bretagna anche dopo la Brexit. Per quanto riguarda la politica estera la Merkel ha insistito in particolare sulla necessità di una cooperazione con l’Africa. ‘Abbiamo interesse che l’Africa si sviluppi razionalmente’. Frasi che confermano l’attenzione crescente del governo tedesco verso il quel continente, come avevamo già osservato in PuntoCritico160118.

Emanuel Macron ha parlato circa il doppio, prima in inglese poi in francese, dedicando la prima parte del suo intervento a una presentazione dell’opera di ristrutturazione economica in atto in Francia, all’insegna di flessibilità e rischio: ‘Eravamo abituati a proteggere i lavoratori dal cambiamento, ma ora dobbiamo lasciare che il lavoro cambi e aiutarli attraverso la formazione’. ‘Inoltre avevamo un’economia fondata sull’abolizione del rischio, in cui non potevamo fallire, ma quando non c’è la possibilità di fallire, non c’è neanche la possibilità di fare bene’. Nella seconda parte del suo intervento ha parlato di strategia, riconoscendo che ‘il capitalismo contemporaneo è in crisi, perché la distribuzione del valore aggiunto non è più equa’, ha riproposto un’Europa a più velocità (chi vuole accentuare l’integrazione se ne assume la responsabilità: per gli altri la porta è sempre aperta’), sul piano strettamente economico ha parlato di investimenti sull’economia sostenibile anche come volano per creare occupazione, e ha sottolineato la necessità di trovare regole comuni con USA e Cina, nel campo dei big data, ma soprattutto contro il dumping fiscale. ‘Non posso permettere che le mie imprese siano sfavorite rispetto ad altre che semplicemente  beneficiano di regimi fiscali più favorevoli’. Gli interventi integrali di Merkel, Macron e Gentiloni a Davos sono (purtroppo con una traduzione imbarazzante) sul sito italiano di Euronews.

Alcune osservazioni

Sul tema del protezionismo è difficile prevedere quali saranno gli sviluppi, ma è verosimile che Trump sia troppo debole per poter andare oltre a qualche mossa ad effetto, come del resto abbiamo visto già su altri temi caldi della sua campagna elettorale (immigrazione, sanità). Tenuto anche conto che settori fondamentali dell’economia americana  – come abbiamo visto nella prima parte di questa newsletter – sono in campo per sostenere un ulteriore salto in avanti sulla strada della globalizzazione.

D’altra parte il paradosso su cui si fonda questo dibattito e che abbiamo sottolineato rivela quanto sia aleatorio utilizzare strumenti di politica economica nati quando le grandi imprese avevano un legame quasi esclusivo coi loro Stati nazionali in un’epoca in cui, come oggi, quella relazione è stata profondamente disarticolata.

Infine molto interessante è la risposta lanciata da Merkel e Macron a Trump (e alla Cina) su due terreni strategici, il controllo dei big data e il fisco, il giorno stesso in cui l’Antitrust europeo ha annunciato una multa di un miliardo al colosso americano dei microprocessori americano Qualcomm, accusato di aver versato svariati miliardi di dollari alla Apple per assicurarsi le forniture di microchip per Iphone e Ipad (Wired240118). 


 

Si può morire in treno? Intervista a un macchinista

Mentre la retorica del ‘non deve più accadere’ la fa da padrone, come ogni volta che accade una tragedia, chiediamo a un macchinista di Trenitalia di spiegarci concretamente cosa può essere accaduto, quali siano le ragioni a monte e in quale condizioni si viaggi e si lavori sulla rete ferroviaria italiana. Lo abbiamo sentito ieri, poco dopo aver appreso dell’incidente.

In termini concreti, perché un treno deraglia?

Le ragioni possono essere molte. Dipende dalle situazioni specifiche. Nel caso di Milano, a giudicare dalle prime immagini che ho visto, direi che ci sono due possibili spiegazioni: o un cedimento della vettura, probabilmente un carrello o un asse della terza vettura, quella che si è piegata e dove ci sono stati i morti, che è uscito dal binario, a quanto pare 2 chilometri prima del deragliamento vero e proprio, oppure una rottura del binario, come ha comunicato poco fa RFI, la società che gestisce la rete ferroviaria italiana. In entrambe le eventualità il problema è che, quando capita, il macchinista potrebbe non accorgersene subito, soprattutto se la rottura avviene lontano dalla locomotrice, o ancora potrebbe percepire le vibrazioni e capire genericamente che c’è qualcosa che non va, senza individuare il problema specifico. Nel frattempo il treno comincia a oscillare e può urtare contro un ostacolo vicino alla linea – in questo caso sono stai i pali della luce – oppure spezzarsi e a quel punto si vuota l’impianto dell’aria e il treno si arresta automaticamente.  In questo caso però – a quanto ho letto – il collega ha frenato prima, ma era comunque troppo tardi.

In ogni caso – come hai detto – RFI ha parlato di ‘cedimento strutturale di una rotaia’…

Sì, anche se in questi casi rimane sempre il problema di capire se è la rottura del binario che ha fatto uscire il carrello o viceversa la rottura del carrello che ha danneggiato il binario. Credo che uno dei punti su cui si concentreranno le indagini sarà proprio questo.

Abbiamo visto quali possono essere state le cause concrete. Poi però ci sono le ragioni profonde per cui continuano a esserci incidenti.

La principale ragione è che la sicurezza rappresenta un costo per le aziende di trasporto ferroviario, si tratti di Trenitalia come di Trenord. Tenere ferma una vettura per fare la revisione significa pagare un costo, non insignificante tra l’altro. Poi c’è il problema del parco mezzi. Il Governo tempo fa aveva annunciato fondi per abbattere l’età media del materiale e allinearlo a quella europea. Sta di fatto che io viaggiando incontro carrozze nuove, ma anche con molti anni di servizio. Il treno deragliato ad esempio, per quello che ho visto dalle immagini, non era nuovo. Lo stesso e identico ragionamento può essere fatto per quanto riguarda la manutenzione della rete. Tra l’altro alcuni colleghi di RFI, guardando una foto che è circolata in queste ore del binario danneggiato, mi dicono che in quel punto potrebbe essere stato fatto un ‘rattoppo’ in attesa di un intervento definitivo.

Esiste un Autorità Nazionale per la Sicurezza Ferroviaria, che dovrebbe occuparsi del problema.

Sì, certo, ma il problema dell’ANSF è che si muove in una logica in cui sembra prevalere la ricerca dei responsabili degli incidenti piuttosto che la preoccupazione di evitarli. E’ giusto punire, ma non basta.

Da lavoratore come ci si sente?

Ci sentiamo sempre con la spada di Damocle dell’ ‘errore umano’ sopra la testa. In questo caso sembra che sia stata esclusa da subito una responsabilità del macchinista, ma spesso capita il contrario. Tieni presente che molto probabilmente sul regionale Trenord c’erano solamente un macchinista e un capotreno. Dal 2009 infatti è entrato in vigore il ‘macchinista unico’ su tutti i treni. Fa eccezione un numero ridotto di treni, sostanzialmente quasi tutti gli intercity. Questo significa che sui treni regionali e sull’alta velocità c’è un solo macchinista e in generale il personale è molto ridotto. Questo per le aziende è un risparmio, ma quando ci si trova in una situazione di pericolo come quella di ieri la differenza si sente. Avere a bordo solo un macchinista e un capotreno, magari anche questo in testa al treno perché sei quasi a fine corsa, quando è fondamentale percepire un piccolo rumore o un’oscillazione strana lungo tutta la lunghezza del convoglio e poterla subito segnalare al macchinista, significa avere meno tempo e meno mezzi per gestire una situazione di pericolo a tutela della sicurezza nostra e dei passeggeri.

 

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